Marmi, idraulici e spedizionieri
Due marmi di epoca romana incuriosiscono i visitatori del Battistero. Uno è un bassorilievo murato sulla facciata sud della scarsella, in basso, e rappresenta una scena di commercio e un’altra di vendemmia: sulla sinistra si vede una nave da trasporto alla fonda, con degli uomini che scaricano merce, e sulla destra altri uomini che pestano l’uva nei tini.
Dunque non si tratta di una battaglia navale come ingenuamente inteso da qualcuno. A qualcun altro invece il vino ha fatto pensare, dato che il marmo sta in un edificio religioso, che ci sia un richiamo all’Eucarestia, ma mi sembra un’interpretazione parecchio stiracchiata.
Passiamo a considerazioni più oggettive. Guardando con un po’ di attenzione questo marmo si capisce che la lastra era in origine più lunga, e che poi è stata tagliata (piuttosto malamente) in tre parti, due delle quali sono quelle che si vedono ora e che, accostate, hanno la giusta larghezza per inserirsi nel disegno del rivestimento di facciata. Il terzo pezzo invece fu gettato via, e questo vuol dire che la scena rappresentata nel bassorilievo non interessava a nessuno, e che gli operai badavano solo ad avere un marmo pregiato e della esatta misura per quello che dovevano fare.
Era il segnaposto di un’inumazione? Non sembra proprio, vista la qualità del manufatto, le scene rappresentate e la mancanza di qualunque scritta; e poi nel caso avrebbero potuto fare qualcosa di meno complicato e senza rapportarsi al disegno del rivestimento della parete.
Tutto fa pensare invece a un lavoro di riparazione fatto per chiudere un buco nel rivestimento: persone tutt’altro che raffinate avrebbero cioè preso il primo marmo antico che avevano a portata di mano, in quanto ritenuto adatto a stare su un monumento anch’esso antico, indipendentemente da che cosa rappresentava. Quella che si dice ‘una pezza a colore’, insomma. La toppa deve essere stata dunque eseguita quando in città erano ancora reperibili marmi romani di spoglio, e, siccome la scarsella è degli inizi del XIII secolo, tutto andrebbe datato in quegli anni.
Che cosa avesse originato la lacuna non è dato sapere: potrebbe essere anche stato un danno accidentale, data la collocazione in basso, ma mi voglio spingere a fare un’ipotesi piuttosto stravagante.
A quel tempo si lavorava per adattare il monumento alla funzione di battistero cittadino. In quel contesto era necessario ricavare da qualche parte una sacrestia, e questa fu il piccolo vano che c’è adesso proprio in corrispondenza del nostro marmo; e in una sacrestia era importante portarci l’acqua, creando insomma un minimo di impianto idraulico. Tutti i collegamenti alla rete idrica cittadina erano a ovest, e dunque verso quell’angolo della sacrestia; così si decise di far passare lì qualche tubo, necessariamente in basso: non era un lavoro facile, anche perché si doveva evitare di tagliare o danneggiare lo zoccolo esterno. La parete del piccolo vano però era – e lo è ancora oggi – piuttosto sottile, e perciò, come sempre succede, fu sfondata; e così fu necessario subito ripararla. Ed eccoci qua.
Potrebbe essere?
Ma devo dire qualcosa anche a proposito di una bella lapide della seconda metà del II secolo che è all’interno, nel matroneo: misura circa 1 mq, ed è stata utilizzata come parapetto di uno dei coretti. Nell’iscrizione si legge che fu fatta dal collegium fabri tignari di Ostia (una corporazione di falegnami) in onore dei regnanti del tempo verso i quali – come si può intendere da altri rilievi simili dato che l’iscrizione non è completa – la corporazione esprimeva gratitudine per qualche beneficio ricevuto (leggi: un lucroso appalto).
Nel Settecento questa lapide fu creduta prova dell’origine barbarica del monumento dagli eruditi del tempo, che spiegavano così il fatto che si fosse dimostrato tanto ‘disprezzo’ nell’usarla come un qualsiasi materiale da costruzione. In realtà quegli eruditi di molte lettere e di poco cantiere non tenevano conto del fatto che sul lavoro si valuta sempre ciò che è più conveniente fare, a parità di risultato; e quindi, se quel marmo era disponibile e non serviva a nessuno, lo si poteva benissimo impiegare dove tornava utile farlo, e ciò anche se non si era in epoca barbarica, ovviamente.
Risolta dunque la pregiudiziale degli eruditi, c’è da chiedersi che cosa ci faceva a Firenze un così pesante messaggio di ringraziamento di una cooperativa di Ostia.
Ma Ostia era uno scalo frequentatissimo, dove certo si fermavano anche le navi che portavano dall’Egeo i marmi del Tempio di Marte. Forse perciò, visto che il collegium non esisteva più da qualche secolo e che un così bel pezzo di marmo già spianato sarebbe sicuramente riuscito utile per fare tante cose, qualcuno lo prese, forse pagando, e se lo portò dietro. Arrivato sul cantiere a Firenze bastò adattarlo un poco, ed eccolo lì.
A fare arzigogolare gli eruditi.
Dall’alto in basso: il bassorilievo ‘navale’ della scarsella; particolare della pianta del piano terreno del Battistero; lapide con iscrizione del II secolo murata nel parapetto di un coretto del matroneo. Su quest’ultima, al margine destro, si notano due buchi riempiti di calce: sono sicuramente le prese in cui passavano le corde usate per sollevare e spostare la lastra in cantiere.
Il monumento riciclato
La costruzione del Tempio di Marte dovrebbe essere stata promossa da Stilicone nell’immediatezza della vittoria su Radagaiso: diciamo verso ottobre-novembre 406. La conclusione dei lavori invece ce la indica l’ambasceria dei fiorentini a Onorio per chiedergli il permesso di rimuovere la sua statua, che deve essere datata non oltre l’agosto del 423, data della morte di lui.
Nel 423 dunque la statua era al suo posto e si voleva usare il Tempio come chiesa: ciò vuol dire che come minimo la costruzione al grezzo era completata e l’interno finito anche nei pavimenti e nei rivestimenti. La costruzione sarebbe perciò durata 17 anni, ai quali si potrebbe aggiungere qualche altro anno perché dovevano essere ancora da eseguire i rivestimenti esterni, se non tutti almeno una parte, dato che i gheroni d’angolo furono rivestiti solo al tempo di Arnolfo. In tutto, insomma, si possono calcolare poco più di vent’anni, che è un tempo possibile ma piuttosto breve, perché nel calcolo andrebbe compresa non solo la durata dei lavori, ma anche il tempo necessario agli accordi, alla stesura del progetto, alla ricerca dell’esecutore, alla stipula dell’appalto.
Queste fasi preliminari furono insomma molto contenute, e ciò significa che i canali che i fiorentini attivarono a Roma, e dei quali parlano le cronache, funzionarono alla perfezione, e che i lavori procedettero con speditezza nonostante la distanza da cui giungevano i marmi lavorati. Si può pensare che la grande organizzazione degli appaltatori, frutto di esperienze secolari, abbia permesso il contenimento dei tempi ottimizzando la filiera di produzione, spedizione e montaggio dei marmi, e operando a Firenze sul grezzo mentre sulla cava (che credo si trovasse in area egea, tra Grecia e Turchia) si preparavano i pezzi.
Ma il progetto non poteva sovrapporsi all’esecuzione, e per la stesura di un progetto così perfetto e dettagliato si potrebbero stimare tre-quattro anni, che andrebbero tolti dai venti calcolati, restringendo il tempo di esecuzione in maniera critica.
E allora?
Allora le ipotesi sono due, non necessariamente alternative, entrambe verosimili e congruenti con il contesto storico.
Una è che siamo di fronte a un exploit imprenditoriale reso necessario dalla disastrosa situazione degli appalti pubblici: un’occasione del genere non la si poteva perdere, per cui si batté ogni record.
L’altra è che i fiorentini comprarono un pacchetto già pronto, progetto e marmi; e questo sarebbe uno scenario assai suggestivo, ma con buone probabilità di fondatezza.
Qualcuno in precedenza poteva avere avuto bisogno di un monumento tropaico e poi non aveva dato corso all’ordine?
Sì, è possibile e anzi probabile: lo stesso Stilicone aveva avuto occasione di celebrare quattro anni prima un’altra sua grande vittoria, questa volta sui barbari di Alarico respinti a Pollenzo nel 402, e nell’occasione aveva eretto un arco trionfale a Roma. Qui bisognerebbe aprire una parentesi sulle vicende personali di Stilicone in quegli anni, ma basti dire che aveva in Senato nemici che lo volevano morto; e infatti nel 408 fu ucciso a seguito di una congiura che non risparmiò il figlio, la moglie, gli amici, i suoi protetti, i suoi soldati. Seguì anche la damnatio memoriae, per cui non sappiamo molto dei suoi trionfi, ma al riguardo qualche traccia c’è. È insomma possibile che una sua iniziativa fosse rimasta a mezzo, e che lui la portasse a compimento in quest’altra occasione simile e di poco successiva, grazie ai fiorentini.
Un’ultima osservazione va fatta a proposito della data del 436 per il completamento della costruzione che Filippo Buonarroti riporta di aver trovato scritta in una nota oggi perduta. Questa data aggiungerebbe un’altra dozzina di anni al conteggio appena fatto: come si spiega?
La spiegazione potrebbe essere che quella nota perduta si riferisse al completamento dei lavori per la trasformazione dell’edificio in chiesa, ed è anche immaginabile che i cattolici fiorentini abbiano dovuto perdere un po’ di tempo a reperire le risorse necessarie a fare le trasformazioni che a loro interessavano ricorrendo a una sorta di crowdfunding, dato che di finanziamenti pubblici non c’era speranza.
E allora, in conclusione, non sarebbe un caso se l’architettura del nostro Battistero ha avuto forme così assolute e ideali, perché molto verosimilmente era stata progettata per essere collocata in qualunque luogo ci fosse da celebrare la gloria di Roma. Qui a Firenze bastava qualche ritocco – di cui credo resti anche qualche traccia – e tutto sarebbe andato a posto.
E non ci sarebbe nemmeno da meravigliarsi se la meridiana solare non funzionò: secondo recentissimi studi di Gabriele Casetta, infatti, sarebbe stata calcolata sulla base dell’inclinazione dei raggi solstiziali proprio alla latitudine di Roma[1].
[1] G. Casetta, «Il Battistero di Firenze – Una lettura liturgica e simbolica» – tesi discussa al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma a.a. 2021, p. 128 (non edito).
Le aree di provenienza dei marmi del Battistero.
Quando a Firenze si parlava greco - 1
Questo testo riguarda una ricerca che ho iniziato molti anni fa e ancora non ho finito. Probabilmente anzi è impossibile finirla perché molto complicata e i dati disponibili assai incerti e lacunosi. Però l’argomento è suggestivo: chiedo dunque pazienza e comprensione. Grazie.
Quando a Firenze si parlava greco – 1
Mercanti siriani, missionari bizantini, militari barbari. E i fiorentini.
Breve premessa
Quando Firenze si chiamava Florentia, i fiorentini parlavano latino, ma non tutti: a lungo infatti vissero in città gruppi di persone di lingua greca. Erano immigrati dal Medio Oriente, commercianti, soldati, uomini di chiesa, tutte persone che ebbero un ruolo importante in momenti difficili della storia cittadina. Della loro presenza ci resta traccia in qualche lapide sepolcrale del V secolo trovata scavando sotto la chiesa di Santa Felicita, vicino al Ponte Vecchio, e qualche altra testimonianza meno diretta. Alcune vicende della chiesa cittadina infatti fanno presumere la presenza a Firenze, dal VII secolo in poi, di un clero mediorientale che aveva portato sulle rive dell’Arno i culti delle terre di origine. Allargando la nostra visuale, sembra che queste presenze siano legate da una continuità nel tempo e che rientrino in un fenomeno generale che vide molte persone percorrere un cammino che, attraversando il Mediterraneo, portava dal Medio Oriente non solo a Firenze, che qui ci interessa in particolare, ma in molti altri luoghi le cui coste si affacciano sul mare nostrum; una via che fu percorsa moltissime volte, con scopi e in circostanze diversi, ed è significativo che quelle persone provenissero da una stessa area geografica e che non si esprimessero nella loro lingua madre, ma nella lingua internazionale del tempo: il greco, appunto.
I tre gruppi di ‘greci’: mercanti, militari, missionari
Il primo gruppo di questi ‘greci’ qui preso in esame è quello di cui abbiamo le più dirette testimonianze, e la cui presenza in città ha dato il via all’idea di un loro ruolo importante nella evangelizzazione dei fiorentini antichi, nonostante fossero – così almeno si crede – dei semplici mercanti. Teoria che solo in parte credo sia vera.
Il secondo gruppo è composto da militari: anche di loro ci sono rimaste alcune lapidi che ne documentano sia la presenza in città al tempo della guerra tra Goti e Bizantini nel VI secolo, sia la provenienza dal Medio Oriente.
Un terzo gruppo è composto da uomini di chiesa, anch’essi mediorientali ma che parlavano la lingua greca, che vennero in città dapprima pochi e poi nel tempo fecero parte di un movimento missionario che sotto i Longobardi interessò non solo l’Italia; movimento che è rimasto poco conosciuto, ma le cui tracce si ritrovano a Firenze ancora nell’XI secolo, quando furono definitivamente abbandonati le preghiere e i riti greci di cui quei preti erano stati portatori.
Impostazione e limiti della ricerca
In questo testo cercherò di interpretare i pochi dati che abbiamo secondo una prospettiva ragionevole, anche se inevitabilmente influenzata da una interpretazione soggettiva dei pochi dati disponibili, per cui è inevitabile che restino margini più o meno ampi per interpretare diversamente quei dati. Va tenuto conto però che molte delle pubblicazioni oggi più diffuse derivano da studi piuttosto lontani nel tempo nei quali sono state poste le basi degli argomenti che qui si trattano, ma non sempre quelle basi risultano solide, come è facile verificare. Di ciò si renderà di volta in volta conto in queste pagine, in modo che chi legge possa farsi un’opinione.
Perché infine Santa Felicita
Nell’ultima parte del testo si parla del culto di Santa Felicita e delle vicende della chiesa a lei dedicata che sarebbe, secondo alcuni, la prima costruita a Firenze. Ciò è certamente inesatto, essendo stata San Lorenzo la prima chiesa fiorentina, ma Santa Felicita è certo tra le più antiche e ancor più antico sembra il culto di questa santa, che presenta aspetti curiosi, dato che esistono due sante di questo nome e che a quella venerata a Firenze (ma anche ad altre) si unisce il culto singolarissimo dei suoi figli martiri, i sette Maccabei. La continuità della presenza di questa chiesa e di questo culto, proiettati sullo scenario cittadino, possono contribuire a fare un po’ di luce su periodi molto oscuri. Un po’ di luce, anche se debole, indiretta e riflessa è pur sempre migliore del buio, e può aiutare a correggere alcuni errori che si leggono qua e là sui testi di storia locale, spesso ripetuti solo per aver assunto acriticamente le informazioni.
(Segue nell’allegato)
Allegato
Gli ambienti sotto la chiesa di Santa Felicita, dove furono trovati i reperti cui si fa cenno nel testo (foto di M.C. Lombardi Francois).
Lo zodiaco va a spasso
Nel pavimento del Battistero, presso la porta del Paradiso, fanno bella mostra di sé due grandi lastre intarsiate con disegni zodiacali e figure zoomorfe. Sono lastre quadrate, di quasi 3 metri di lato, e presentano caratteristiche simili, per cui si può ritenere che siano state realizzate insieme, per accompagnarsi a decorare il pavimento.
Una delle due (chiamiamola ‘lastra 1’) è divisa in anelli concentrici e settori delineati geometricamente con assoluta proprietà, e tagliati con cura per inserirsi correttamente nella composizione lasciando integro l’elemento centrale che è un disco di marmo bianco. E questo è molto strano: in una lastra ricca di figure e motivi, l’elemento focale della composizione si presenta del tutto muto e inespressivo, privo di figure.
L’altra lastra invece (‘lastra 2’) presenta una più ricca serie di figurazioni incentrate sul tema dello zodiaco, con al centro l’immagine del sole circondata da un verso palindromo che celebra l’astro: “En giro torte sol ciclos et rotor igne”. E qui la stranezza è che, nonostante il sole sia il centro delle geometrie e la chiave del messaggio simbolico, la sua figura è tagliata in due parti esatte. Ciò testimonia attenzione nel taglio, che tuttavia, come era inevitabile, ha causato danni alle parti minute dell’intarsio. Eppure sarebbe stato facile evitare ciò se fin dal principio si fosse pensato di creare una formella rotonda, della misura giusta per contenere la figura del sole, che è piuttosto piccola, e la scritta palindroma intorno. Anche gli altri tagli che si vedono sulla lastra non hanno corrispondenza con i disegni, che sono attraversati con una certa attenzione ma senza alcuno scrupolo.
In conclusione: se per la lastra 1 si è avuta cura nel predisporre già al momento dell’ideazione il coordinamento tra tagli e disegni, per la 2 non è stato così: questa lastra doveva essere originariamente tutta di un pezzo ed è stata divisa solo in un secondo momento. Ciò si potrebbe spiegare se ci fosse stato uno spostamento delle lastre: la 1 sarebbe stata scomposta e rimontata agevolmente, mentre la 2 avrebbe presentato molti problemi date le sue dimensioni. Si sarebbe ricorsi perciò a un sistema molto sbrigativo cercando di limitare i danni, ma trovandosi anche in grandi difficoltà per trovare le linee di taglio di minore impatto e più facili da eseguire. E infatti qui nella 2 i tagli, che la dividono in quattro parti, non hanno andamenti radiali come nella 1, ma solo lineari, che non implicavano nessun problema di geometria nel tracciamento.
Perché dunque lo spostamento?
Provo una spiegazione.
In origine, il Tempio di Marte aveva l’ingresso a ovest, e l’attuale scarsella era un atrio aperto verso la via principale della città romana. Quando il Tempio divenne chiesa, si tentò in vari modi di creare un’abside, ma alla fine si decise di ricavarla chiudendo l’atrio e di utilizzare come ingresso la porta sud, essendo le altre due poco adatte per motivi di praticabilità dall’esterno.
Quando poi la chiesa divenne battistero, nel 1128, fu necessario far diventare ingresso principale la porta est perché era quella rivolta verso la cattedrale, e ciò rese necessari vari lavori all’edificio. In più si pensò di collocare su quel lato i bei pannelli pavimentali che decoravano l’atrio originario perché, come erano stati creati per introdurre i visitatori nel Tempio, così si sarebbero prestati benissimo anche a sottolineare l’importanza del nuovo ingresso dell’edificio cristiano.
Dei due pannelli, quello con lo zodiaco era stato evidentemente concepito per offrire a chi entrava una chiave di lettura simbolica dell’edificio, perché lo spazio del Tempio voleva esprimere il destino di gloria di Roma in una proiezione celeste e di eternità. Ma quale scopo aveva l’altro, che offriva solo la vista di un disco vuoto?
Lo scopo ce lo fa capire proprio il disco vuoto: come la rota porfiretica lì vicino, che era stata fatta per il trono dell’imperatore e ha le stesse dimensioni, anche questo disco doveva segnare la posizione di lui quando riceveva, stando sull’ingresso, l’omaggio dei fiorentini che affollavano la piazza lì davanti.
Ma non è tutto, perché si deve considerare che nel 1128 certamente l’altare c’era già, dato che l’edificio era già da tempo diventato chiesa, ed era posto su un presbiterio rialzato di alcuni gradini più o meno come lo si vede ora. Quindi, essendo inimmaginabile che si sia demolito l’altare e il presbiterio per riportare in luce i pannelli del sottostante pavimento, si deve concludere che quei pannelli erano già stati rimossi dalla loro collocazione originaria e si trovavano depositati da qualche parte.
Per questi marmi deve essere insomma avvenuto quello che avvenne per i marmi della lanterna e per la colonna della statua di Marte: quando, nel V secolo, il Tempio diventò chiesa, tutti i marmi di pregio furono smontati e depositati nelle vicinanze, per essere poi riutilizzati se si fosse presentata l’occasione. Per i pannelli questo avvenne nel 1128, e probabilmente fu allora che avvennero le rotture.
Sopra: schema dei tagli (in rosso) della lastra 1.
Sotto: schema dei tagli (in rosso) e delle rotture (in blu) della lastra 2.
Particolare del sole al centro della lastra con lo zodiaco. Il taglio ha danneggiato gli intarsi nelle parti centrali della corona solare.
Sopra: pianta dello stato attuale, con i due pannelli a est presso la Porta del Paradiso, e pianta del probabile stato originario, con l’ingresso a ovest e i pannelli vicini ad esso.
La meridiana non funziona
Lo zerbino più bello di tutta la storia dell’arte si trova nel pavimento del Battistero, vicino alla porta nord. È una lastra di marmo che per secoli è stata calpestata senza riguardo, e che qualche anno fa, forse dando ascolto ad alcune mie accorate segnalazioni, l’Opera ha provveduto a proteggere deviando il passaggio delle persone.
La lastra rappresenta la volta celeste: al centro c’è il Sole, e intorno gli otto cerchi dei cieli di Luna, pianeti e stelle fisse. Da un punto di vista geometrico, l’immagine è una pianta, cioè la proiezione ortogonale di una semisfera (la volta stellata) su un piano orizzontale (la terra), ed è assolutamente straordinario che tale immagine sia ottenuta applicando correttamente i principi della geometria descrittiva teorizzati da G. Monge nel XVIII secolo. I cerchi poi sono attraversati da spirali formate da triangoli curvi modellati uno per uno che creano un ipnotico effetto di movimento rotatorio. Un capolavoro di arte e scienza.
Pensare che questa immagine sia stata creata in ambiente romanico è ovviamente insostenibile, e così anche attribuirla a fantomatiche scuole mediorientali di quel periodo. Perché dunque in epoca tardoantica, e nel contesto della realizzazione dell’edificio, si concepì questo marmo così singolare e lo si realizzò con una esecuzione finissima?
Ecco alcune tracce per una possibile spiegazione.
Per celebrare la gloria dell’imperatore dopo la vittoria su Radagaiso, l’architetto del Tempio pensò ad alcuni simboli solari. Uno prevedeva che il raggio più alto del corso annuale del sole, si proiettasse a mezzogiorno del 21 giugno in un punto preciso dell’interno. Questo racconta Villani; ma di questa proiezione non c’è traccia nel pavimento presso la porta Nord, dove il raggio doveva necessariamente cadere.
Vicino a quel punto c’è invece la lastra di cui si è detto, che reca evidenti simbologie solari. Se questa lastra fosse stata creata per ricevere la proiezione, perché non si trova nel posto corretto?
Risposta: l’architetto quando fece il progetto era molto lontano, probabilmente in Grecia o nel Medio Oriente, e non conosceva l’esatta angolazione che avrebbe avuto il raggio meridiano a Firenze. Fece comunque dei calcoli e preparò il marmo della proiezione, prevedendo che potesse essere messo a misura sul posto. Così creò nel pavimento un pannello rettangolare con un disegno che permetteva lo scorrimento del marmo quando si fosse voluto trovare il preciso aggiustamento; cosa che invece per qualche motivo non fu fatta, forse per la fretta di non attendere il 21 giugno. Così ci si limitò a porre quel marmo al centro del riquadro, con semplice funzione decorativa.
Queste tracce non sono completamente esaustive del mistero del nostro zerbino, ma forse possono aiutare per ulteriori approfondimenti.
Sopra: il marmo solare presso la porta nord, il concetto proiettivo usato per disegnarne l’immagine e alcuni particolari che dimostrano l’estrema finezza dell’esecuzione.
A sinistra: la proiezione solare nell’interno del Battistero al mezzogiorno del solstizio d’estate, come doveva avvenire secondo il racconto di Giovanni Villani, in una ricostruzione grafica a cura del Museo di Storia della Scienza di Firenze.
Le geometrie nascoste
Più che dalle prove di laboratorio su campioni di materiali, sempre soggette a dubbi di ogni genere, possiamo capire se il Battistero è romanico o no facendo una semplice riflessione.
Per costruire un edificio bisogna fare un progetto, e per fare un progetto bisogna possedere adeguate nozioni di geometria. Il Battistero, nella sua forma apparentemente semplice, nasconde geometrie molto complesse, e se si crede che il Battistero sia un’opera romanica è perciò logico chiedersi se queste geometrie sarebbero state alla portata di un architetto romanico.
La risposta è ovvia: assolutamente no. Credere che un architetto romanico potesse creare le complesse geometrie che ci sono nel Battistero è come credere che un meccanico di biciclette abbia le conoscenze necessarie per mettere a punto il motore di una formula uno.
Nel mondo romanico non c’erano architetti capaci di concepire, rappresentare e gestire le geometrie tridimensionali che nel Battistero si vedono applicate con la massima precisione un po’ dovunque, ma soprattutto nel sottotetto, dove l’architetto ha dovuto gestire tre diverse trame geometriche – quella del prisma ottagonale che costituisce il corpo dell’edificio, quella delle superfici cilindriche delle vele della cupola e quella dei piani inclinati delle falde del tetto piramidale – e guidare gli operai a realizzare con assoluta precisione le membrature murarie conseguenti. Un compito che manderebbe in crisi molti laureati di oggi.
Questa non è una questione di capacità artistiche: è una questione oggettiva, di conoscenze tecniche. Quelle geometrie in epoca romanica non c’era nessuno che le sapesse fare, punto.
Capisco che chi ha studiato lettere o storia dell’arte possa non aver considerato questo aspetto, e che, nel formulare una propria teoria sulla datazione del monumento, non abbia pensato di porsi qualche domanda riguardo alle conoscenze di geometria del progettista. Ma gli architetti?
(Sotto) – Al livello dell’attico l’architetto ha dovuto guidare gli operai nella realizzazione di murature le cui forme dovevano rispondere contemporaneamente a tre diverse trame geometriche tridimensionali: quella del prisma ottagonale del corpo dell’edificio, quella delle superfici cilindriche delle vele della cupola e quella delle falde inclinate del tetto piramidale. E non poteva improvvisare: doveva avere già previsto e controllato tutto sul progetto.
Si può pensare che questo potesse avvenire in epoca romanica?
Nel titolo: particolare dell’assonometria disegnata da G. B. Milani (1918)
La geometria del Battistero (disegno di Roberta Lovino).
La geometria di uno dei vani d’angolo dell’attico.
Gli avvoltoi dei matronei
Come accade per tutto il Battistero, anche i singolari dipinti che decorano le pareti dei matronei non si sa chi li ha fatti né quando.
Secondo gli studiosi di oggi devono essere romanici, dato che stanno su quelli che secondo loro sono muri romanici, però su questo parere è lecito nutrire qualche dubbio, anche perché quei dipinti non rappresentano soggetti religiosi, ma laici: solo animali e figure geometriche, tutti rigorosamente in bianco e nero. Un’eresia artistica per un edificio cristiano romanico. Non ci sarebbe da meravigliarsi se dopo le prime pennellate il pittore fosse stato immediatamente licenziato e severamente punito. Invece gli fu permesso di continuare il suo lavoro senza essere cacciato a pedate nel sedere, e di decorare tutte le pareti, anche se poco tempo dopo si cominciò a coprire tutto con coloratissimi mosaici di santi e profeti religiously correct.
Ha una logica tutto questo? Non mi pare.
Se invece i muri non fossero romanici si potrebbe raccontare tutta un’altra storia. Eccola.
Il Battistero era un ‘Tempio di Marte’ del V secolo e costò un’esagerazione. Verso la fine dei lavori la pur prospera colonia di Florentia finì in bolletta, e per completare l’interno spendendo poco invece dei rivestimenti in marmo si pensò di fare dei dipinti che da lontano potessero sembrare marmi bianchi e neri. Però a quel tempo i pittori costavano molto cari e se ne avevano pochi a libro paga; allora, siccome l’impresa era sulle spese e il tempo di consegna stringeva, si assunse qualche ragazzotto di buona volontà perché s’impegnasse a scarabocchiare qualcosa di decente sotto la guida di un pittore esperto.
Il maestro si dette da fare cercando di sollecitare la fantasia dei raffazzonati discepoli; se però dipingeva un bel rapace, l’allievo non andava oltre le paperette, e se faceva un’elegante composizione di racemi geometrici aveva in risposta solo qualche sbilenco ghirigoro. Tutto ciò era frustrante, ma quello era il livello dei primi pittori fiorentini: praticamente zero. All’orizzonte non si profilava ancora nessun Cimabue.
Da dove venivano i pittori bravi ce lo dicono gli avvoltoi che si vedono in un coretto a nord ovest, evidentemente dipinti a memoria perché è piuttosto improbabile che li avessero catturati a Monte Morello e ora stessero in gabbia a far da modelli. Quelli erano avvoltoi delle montagne mediorientali da cui quei pittori provenivano. Mediorientali come i marmisti, l’impresa, l’architetto.
La colonna ritrovata
La colonna con la statua della Dovizia – oggi correntemente detta Colonna dell’Abbondanza – che si eleva nel centro di Firenze, in piazza della Repubblica, è la stessa che un tempo stava al centro del Battistero a sostenere la temutissima ‘statua di Marte’ ricordata da Dante.
Ecco perché.
Alcuni pochi di quei pochissimi che conoscono le mie idee circa le origini del Battistero di San Giovanni (e cioè che non si tratta di un monumento romanico, ma romano, proprio romano come vogliono le più antiche tradizioni fiorentine) sanno già che un giorno, mentre in piazza della Repubblica guardavo la colonna dell’Abbondanza (anticamente della Dovizia), mi è parso improvvisamente chiaro che quella colonna un tempo doveva stare al centro del Battistero, a sostenere sul suo capitello la famosa statua di Marte che è ricordata da Dante nella Divina Commedia.
Fatto qualche approfondimento senza trovare elementi contrari alla mia idea, vi ho fatto cenno in una piccola pubblicazione sulle origini del San Giovanni.[1] Secondo me, dunque, tutto avrebbe avuto inizio nel 406, quando sulle pendici fiesolane si concluse in una strage l’invasione del re goto Radagaiso, sconfitto dall’esercito romano guidato da Stilicone; dopo di che i fiorentini, come scrive Villani,[2]«ordinaro di fare nella detta cittade uno tempio maraviglioso all’onore dell’iddio Marti» in memoria del fatto. E così Firenze ebbe quello che oggi è il suo Battistero.
In quegli anni lontani, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, la comunità cittadina era attraversata da profondi contrasti tra cattolici, ariani e pagani, dato che ogni gruppo cercava la propria affermazione. I cattolici, appena conclusa la costruzione del Tempio, ne presero subito possesso per farne una chiesa, e perciò rimossero la statua, simbolo pagano, portandola al Ponte Vecchio. I marmi dell’edicola che la circondava, invece, dato il loro valore, furono smontati e deposti nelle vicinanze, finché nel 1150 furono riutilizzati adattandoli per creare l’attuale lanterna del monumento.
Ma anche la colonna che sosteneva la statua deve avere avuto una sorte simile, perché ho presto scoperto che la mia idea di un suo rapporto con quella di piazza della Repubblica non era una novità, essendo stata prospettata già fino dal Cinquecento. Cercherò adesso di riassumere la questione valendomi delle informazioni che mi offre un bel saggio di Margaret Haines.[3]
Oggi tutti ritengono che la colonna sia romana, ed è certo che nel 1429 giaceva da tempo immemorabile ai piedi del campanile di Giotto. Poi, in quell’anno, l’Opera di Santa Maria del Fiore ne concordò la cessione, in cambio di alcuni beni esistenti in Mercato Vecchio, agli Ufficiali della Torre, cioè alla magistratura preposta alla gestione degli spazi pubblici della città, che avevano intenzione di utilizzarla per quello che oggi si definirebbe un intervento di arredo urbano che prevedeva di collocarla in un preciso punto del Mercato, ponendovi sopra una statua che doveva rappresentare la Dovizia e che era stata già commissionata a Donatello. Ma Donatello era famoso per le sue lungaggini, per cui solo dopo molti solleciti si arrivò nel 1430 alla consegna della statua e al compimento del programma. L’attesa dei committenti nonostante questi ritardi dimostra che colonna e statua facevano parte fin dall’inizio di un progetto unitario, che prevedeva una spesa rilevante perché la transazione fu fatta a fronte di una cessione di beni, e poi anche perché una colonna così bella aveva un grande valore e perché si era scelto lo scultore migliore.[4]
A questo punto dobbiamo iniziare un altro discorso, riguardo cioè al rapporto della colonna di piazza della Repubblica – o del Mercato Vecchio – con il Battistero. Questa colonna (chiamiamola A) per proporzioni e materiale (granito, probabilmente dell’Elba) ha un’evidente somiglianza con le altre dodici (B) dell’ordine basso interno del San Giovanni, rispetto alle quali però ha un’altezza inferiore di 25 cm. Secondo una tradizione antica, questa colonna in origine stava collocata subito a sinistra entrando dalla Porta del Paradiso; da lì sarebbe stata rimossa per essere sostituita da quella scanalata che c’è ora, che è in marmo bianco come l’altra che sta a destra entrando (colonne C). E qui abbiamo un singolare incrocio di coincidenze: le colonne C sono delle stesse misure e proporzioni delle B, ma di un materiale diverso, mentre la A è dello stesso materiale ma non della stessa altezza.
Sempre secondo la tradizione, avallata nel Cinquecento da vari autori (Albertini, Borghini, Vasari), la colonna A sarebbe stata proprio quella che sosteneva la statua di Marte al centro del Tempio e che sarebbe stata spostata dai Cristiani fiorentini.[5] Gli studiosi di oggi invece, pur non obiettando sul fatto che le colonne C siano antiche e che siano state poste nel San Giovanni in epoca cristiana, quando poi si tratta di spiegare perché siano diverse dalle B, le indicano come marmi di spoglio provenienti da perduti monumenti della Firenze romana o delle vicinanze.
Ma questa affermazione non sta in piedi. È infatti impossibile credere che delle colonne di recupero si siano potute inserire così precisamente per le misure e armoniosamente per le proporzioni, nonostante la diversità del materiale, in un contesto formale calibratissimo come quello del San Giovanni; e poi, a Firenze o nei dintorni non sono mai state trovate tracce di un edificio romano che potesse far pensare di avere avuto colonne simili, nemmeno nell’area del Campidoglio cittadino.
Ancor più incredibile è l’idea che queste colonne abbiano sostituito altre precedenti, perché non c’era nessun motivo per fare una trasformazione del genere, evidentemente peggiorativa dal punto di vista estetico, e che avrebbe comportato rischi grandissimi per la stabilità della cupola e della quale peraltro sarebbero rimaste tracce tangibili di connessioni e riprese murarie, che invece non sono state trovate da nessuna parte.[6]
Ci sarebbero da fare anche altre osservazioni, ma fermiamoci qui e cerchiamo invece di arrivare a una spiegazione logica; che c’è, e possiamo ricavarla proprio dalle tradizioni fiorentine, che sotto un manto di fantasie nascondono un fondo di verità. Ecco dunque come potrebbero essersi svolti i fatti.
In origine al centro del Tempio stavano la colonna A e la statua di Marte. Entrambe furono rimosse quando il Tempio divenne chiesa, sia perché ingombravano lo spazio, sia perché la statua era un simbolo pagano. Ma è importante aggiungere un particolare non considerato dagli studiosi, e cioè che la statua non era solo un simbolo di vittoria, ma anche un simbolo di pace e prosperità: questo infatti documentavano molti precisi reperti dei riti di fondazione del Tempio che furono trovati negli scavi ottocenteschi senza però che venissero riconosciuti dagli archeologi del tempo. Incredibile, ma è così, e ancora più incredibile è che da allora nessuno abbia fatto qualche approfondimento sui rapporti del tempo e sui resti ancora visibili sotto il Battistero.
Di questa qualificazione della statua non solo come simbolo guerriero (Marte, che poi era invece l’imperatore stesso in vesti di guerriero) ma come simbolo connesso con l’augurata ‘dovizia’ cittadina, cioè per un futuro migliore dopo lo scampato pericolo, era certamente rimasto qualche ricordo, che doveva essere ancora ben noto al popolo e agli intellettuali anche nel Rinascimento, ed è per questo che Leonardo Bruni pensò ad essa quando definì il programma per riqualificare l’antico mercato. Margaret Haines ha intuito ciò quando ha scritto che il programma «comprendeva con ogni probabilità fin dal primo momento l’idea deIIa figura allegorica deIIa Dovizia, quasi una virtù atteggiata ad idolo, ma anche un voto di prosperità in tempi di dure prove deIIa Repubblica».[7]
Il legame con il mondo classico dunque ci fu, e non solo per motivi culturali o aspirazioni artistiche, bensì anche per ricollegarsi ad un augurio antico e potente, per dare corpo al quale si fece ricorso a Donatello; e ciò indica quanto certe credenze fossero ancora vive e diffuse nella società fiorentina.
Seguendo questa traccia si sciolgono infine altri nodi della questione. Uno riguarda la somiglianza della colonna A con le B, e allo stesso tempo la sua differenza di altezza: tutto si spiega infatti dal punto di vista compositivo e dell’immagine. Per vari motivi per i quali rimando a un mio studio precedente,[8] l’immagine che offriva in origine l’interno del Tempio era molto diversa dall’attuale. Al centro, intorno alla statua di Marte, sorgeva un’edicola simile a quella dipinta da Vasari nel Salone dei Cinquecento, e la colonna A che ci stava dentro doveva ovviamente essere simile alle colonne B, ma un poco più bassa di esse, dovendo stare su un piedistallo e sostenere la statua; perciò la sua altezza fu calibrata per non essere né sproporzionata né troppo emergente al di sopra del giro trabeato dell’edicola. Così si spiega anche la sua identità di proporzioni e di materiale con le B.
Resta da chiarire perché le colonne C sono diverse, ma anche per questo c’è una spiegazione. Le due colonne sono sempre state dove si trovano, e sono state volute diverse dalle altre per motivi simbolici, come si capisce dal fatto che anche all’esterno accanto alla porta est ci sono due colonne bianche diverse da quelle delle porte nord e sud, che sono verdi. Si tratta di un simbolismo di tipo solare, molto diffuso nell’antichità e legato al culto dell’imperatore vittorioso, paragonato al sole che vince le tenebre: per questo ogni mattina i raggi solari dovevano entrare dalla porta est e illuminare la sua statua. Un simbolo celebrativo, insomma, che si aggiungeva ad altri simboli simili presenti nell’edificio.[9]
Il fatto poi che la colonna del Mercato Vecchio, nel 1429, si trovasse in possesso dell’Opera di S. Maria del Fiore e non di quella di S. Giovanni, come sarebbe stato logico se davvero la sua provenienza fosse stata dal Battistero, si spiega con il fatto che, essendo rimasta abbandonata per secoli ai piedi del Campanile, doveva ormai essere pacificamente considerata proprietà dell’Opera di Santa Maria del Fiore, essendosi perduta ogni memoria della sua provenienza. Una forma di usucapione, insomma.
Inutile infine approfondire l’idea che la nostra colonna A sia un elemento di recupero tratto dalla Santa Reparata, chiesa bruttina e sgraziata a detta di tutti i fiorentini del tempo, e nei cui resti non è stato trovato niente che faccia pensare che sia mai stata nobilitata da membrature di tale pregio.
E quanto al fatto che la colonna venisse collocata innestandola con un solido perno di ferro nel troncone di un’altra colonna più antica, oggi scomparsa sottoterra, ma che nel 1429 emergeva ancora dal suolo all’incrocio delle due strade principali della città, questo conferma la precisa volontà di ricondursi al contesto delle origini romane di Firenze, viste come fonte di orgoglio cittadino.[10]
Insomma: si può essere sicuri che la colonna che stava al centro del Battistero quando, come dicono le più antiche tradizioni, era un Tempio di Marte è proprio quella che oggi svetta in Piazza della Repubblica, a sopportare non solo il peso di una statua, ma anche di secoli di storia.
[1] Degl’Innocenti P. (2019), Il Battistero di San Giovanni, un enigma fiorentino – Studi, leggende e verità da Dante a Ken Follett, Firenze, Pontecorboli.
[2] Cronica, I, XLII.
[3] Haines M. (1984), La colonna della Dovizia di Donatello, Rivista d’Arte, anno XXXVII serie IV, vol. I, pp 347-359.
[4] Haines M. (1984), p. 348.
[5] Haines M. (1984), p. 354 nota 22.
[6] Degl’Innocent P. (2017), L’architettura del Battistero fiorentino di San Giovanni – Progetto, appalto, costruzione, vicende, Firenze, Pontecorboli, p. 85 sg.
[7] Haines M. (1984), p. 356.
[8] Degl’Innocenti P. (2017), p. 89 sgg.
[9] Degl’Innocenti P. (2017), pp. 81 sgg.
[10] Haines M. (1984), p. 355 nota 25.
Le colonne hanno sempre avuto un grande valore, per cui, se inutilizzate, venivano comunque conservate. Questa è la colonna di piazza Santa Felicita, che ha avuto una sorte simile a quella di piazza della Repubblica: scampata alle distruzioni del 1944, fu depositata per molti anni in una corte vicina, finché non fu ricollocata al suo posto.