Quando a Firenze si parlava greco - 2
(segue da parte 1)
3 – Militari del V secolo
Militari dall’oriente
Come si sa, Davidsohn ha attribuito a questa comunità siriana larga parte del merito della diffusione del Cristianesimo a Firenze,[1] considerando che al tempo di Ambrogio i cristiani fossero ancora un nucleo poco numeroso,[2] ma la sua spiegazione si basava più che altro sul presupposto che le comunità commerciali orientali avessero costituito il principale movimento migratorio del tempo, dimenticando quello ben più importante dei militari: il trasferimento di truppe dall’Oriente per le necessità della difesa in Occidente fu infatti intenso e continuo. La presenza di questi militari è rimasta documentata in molti luoghi dove si attestavano le difese contro i barbari, specialmente nell’Italia settentrionale, e così deve essere accaduto anche a Firenze. Nel cimitero di Santa Felicita sono state trovate varie lapidi di soldati che dovevano essere stati di guarnigione, morti forse per cause di servizio, o forse dei veterani che qui si erano stabiliti perché avevano proprietà o legami familiari.
E questa presenza di truppe deve essere durata a lungo, dato anche che la condizione militare era ereditaria, per cui è possibile che col tempo i legami tra popolazione locale e militari si siano fatti più stretti, fino a interessare anche la sfera religiosa.[3] Lo stesso uso della lingua greca si spiega bene in un ambito militare: per truppe provenienti da varie zone della Pars Orientisdell’impero era necessaria una lingua comune, dato anche che i contingenti venivano frequentemente integrati o si avvicendavano: era quindi logico che nei corpi si mantenesse l’uso di una lingua internazionale com’era il greco.
La presenza di militari spiega dunque assai meglio dei labili contatti commerciali ipotizzati da Davidsohn la diffusione locale del Cristianesimo, che sarebbe avvenuta sia per l’integrazione che col tempo si doveva generare tra i soldati stanziali e la popolazione civile, sia per la presenza di missionari al seguito delle truppe. Questa presenza è documentata per il VII secolo, ma è possibile che un clero orientale abbia seguito le truppe già nel V secolo, sulla scia di quei rapporti che, sul piano religioso, dovevano esistere come si è visto tra Firenze e il mondo ‘greco’ fino dal tempo di Ambrogio.
Lapidi di militari
Anche le date delle lapidi di Santa Felicita suggeriscono di approfondire l’idea dei militari. Al riguardo va tenuto presente che le lapidi che sono esplicitamente di militari non recano indicazioni di date, salvo una, e sono scritte in latino. Altre lapidi lasciano pensare di essere probabilmente appartenute a militari in base alle considerazioni che saranno esposte di seguito.
Dunque: di tutte le lapidi trovate, sia latine che greche, otto recano date che sono comprese tra il 405 ed il 547, quasi un secolo e mezzo. Le lapidi con indicazioni di date si trovano più frequenti all’inizio e alla fine di questo periodo; negli anni intermedi c’è una sola lapide, del 491. Sembra quindi che il cimitero sia stato utilizzato maggiormente agli inizi del V secolo e verso la metà del VI, cioè rispettivamente nel periodo delle invasioni di Alarico e Radagaiso e in quello della guerra goto-bizantina.
Quattro lapidi sono sicuramente di soldati barbari come indicano i nomi dei defunti. Una, piuttosto tarda, è di Macrobius, ‘primicerius Primi Theodosianorum Numeri‘,[4] cioè comandante di un reparto dei Primi Theodosiani, che morì nel 547, quindi durante la guerra goto-bizantina. I Numeri erano, insieme alle Cohortes e alle Alae, tipiche truppe ausiliarie del tardo impero, formate appunto da barbari e destinate alla difesa dei confini, specie nelle provincie occidentali. Macrobius doveva prestare servizio in quei contingenti che i Bizantini trasferirono nell’Italia superiore negli anni tra il 537 e il 568 nel contesto della guerra contro i Goti. [5] Le altre tre, che purtroppo non recano indicazioni circa la data della sepoltura, appartengono invece a soldati di un corpo particolare, la Schola Gentilium,[6] che, come indica il nome, era composta di barbari;[7] e nomi di barbari avevano appunto Mundilo, [8] morto a circa 40 anni, Segetius, [9] morto a 38, e Pylades, ducinarius, cioè comandante di un reparto di quindici uomini. E, a rafforzare le indicazioni circa la presenza a Firenze di questo corpo scelto, un altro frammento di lapide trovato nel 1948 conteneva anch’esso l’indicazione di una schola. [10] Ad un soldato bizantino anche lui barbaro è verosimilmente da attribuire un’altra lapide, quella di Anastasius Galata, data appunto la sua provenienza dalla Galazia, regione famosa per i guerrieri valorosi;[11] e, come ho già accennato, lo stesso Theoteknos sepolto nel 405 poteva essere un militare orientale, benché la sua lapide non offra indicazioni al riguardo.
Comitatenses e limitanei. Le scholae
Anche il quadro storico d’insieme conferma la validità dell’ipotesi di una consistente presenza a Firenze di militari provenienti dall’Oriente. Al tempo, l’esercito imperiale era distinto tra Limitanei, truppe stanziate sui confini, e Comitatenses, truppe dell’esercito campale, distinte a loro volta in Comitatenses veri e propri e in Palatini, che erano di stanza nel palazzo imperiale.[12] I Limitanei già a partire dal IV secolo, e poi soprattutto dal V, erano corpi poco efficienti, sedentari e dediti più alla coltivazione dei campi che alle esercitazioni militari,[13] che costituivano quindi la parte stanziale dell’esercito, posta a difesa dei confini in guarnigioni fisse.[14] I comitatenses erano invece la parte mobile dell’esercito; tuttavia col tempo anch’essi furono dispersi in armate regionali, diventando pseudocomitatenses. [15] E questo sembra il caso di Firenze. La difesa del passo d’Arno, infatti, era allora la logica conseguenza della situazione di pericolo in cui versavano tutte le città poste sulle possibili direttrici di un’invasione. Per indirizzarsi verso Roma, i barbari che scendevano dal nord est della pianura padana potevano scegliere se percorrere un itinerario lungo l’Adriatico, oppure se attraversare l’Appennino, raggiungere la Tuscia e dirigersi poi verso Arezzo. In questo caso era molto probabile che un invasore che proveniva da Nord e non seguiva la costa scegliesse la strada di Firenze, e questo può spiegare la presenza in città di truppe normalmente stanziate altrove e i cui ranghi erano formati in larga parte da barbari, dato che l’arruolamento di barbari era allora una prassi consueta.[16]
Rinforzi dall’Oriente ai primi del V secolo. Una difesa stanziale
In varie occasioni, già a partire dagli anni precedenti l’invasione di Radagaiso, ci furono arrivi di militari dall’Oriente nel contesto di un grande sforzo per migliorare la difesa dell’Italia.[17] A quel tempo infatti l’impero, pur distinto in due partes, era ancora considerato da tutti come uno solo.[18] I movimenti di truppe entro i confini dell’impero si inseriscono dunque in un quadro ampio e accertato: nei primi anni del V secolo infatti l’invio di truppe dall’Oriente fu richiesto più volte da Stilicone, da Onorio,[19] da Costanzo.[20]
In previsione delle invasioni, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo molte città dell’Italia settentrionale, e la stessa Roma,[21]rinforzarono le difese. Il pericolo si era concretizzato nel 401 con i primi tentativi di Alarico e Radagaiso, per cui gli anni successivi devono essere stati vissuti a Firenze in un clima di grandissima tensione,[22] finché nel 406 ci fu l’intervento liberatorio di Stilicone;[23] e il fatto che nella successiva invasione del 408 Alarico non sia passato dal territorio fiorentino fa indirettamente capire che Firenze aveva ancora integre le sue difese.
Perciò la presenza di militari a Firenze non deve essere stata un fatto episodico legato all’invasione di Radagaiso. In città doveva essere presente già prima una guarnigione che veniva continuamente integrata con nuovi invii di truppe: sono infatti abbondanti le testimonianze di richiami effettuati in condizioni di emergenza, tanto da arrivare alla leva degli schiavi. In questo contesto, la presenza di soldati di origine barbarica a Firenze si spiega appunto con l’appartenenza alla guarnigione o a truppe di rinforzo inviate sul posto.
I soldati sepolti a Santa Felicita potevano dunque essere stati trasferiti qui per far fronte ad una situazione di emergenza che si protraeva nel tempo (una particolare forma di chain migration, insomma), e probabilmente la loro presenza non era legata ad un evento eccezionale, quale fu l’invasione di Radagaiso, ma ad un programma di rinforzo delle difese attuato su vasta scala, iniziato già prima del 406 e durato a lungo. Questi soldati dovevano appartenere ad una guarnigione di stanza in città, che era stata rinforzata agli inizi del V secolo con l’invio di truppe provenienti dalle provincie orientali, come ci indica la provenienza dei defunti (Celesiria, Galazia), la loro lingua e la stessa pratica della religione; truppe che rimasero stanziate in città integrandosi con la popolazione locale, come dimostra il fatto che i soldati morti venivano sepolti nel cimitero della locale comunità cristiana.
Nella lapide di Mundilo è scritto ‘sen. sco. gent.‘: un veterano, dunque, della Schola Gentilium Seniorum, [24] truppe che in origine appartenevano al comitatus, la guardia dell’imperatore, e lo seguivano nelle campagne di guerra.[25] Poi, dal V secolo, gli imperatori non scesero più in campo di persona, e questo farebbe datare le tre lapidi di Santa Felicita non prima degli inizi di quel secolo.[26] Forse anche Theoteknos, benché morto nel 405 e quindi quasi un secolo e mezzo prima di Macrobius, potrebbe essere stato un militare impegnato nella difesa di Firenze, già allora minacciata dalle invasioni.
Una guarnigione doveva trovarsi stanziata in città già alla fine del IV secolo, dato l’aggravarsi della situazione, e che la sua consistenza non fosse idonea a fronteggiare il pericolo che si prospettava è dimostrato dal fatto che Stilicone, nel momento della crisi, dovette ricorrere a iniziative del tutto straordinarie pur di avere per tempo a Firenze i soldati di cui aveva bisogno.
Oltre al richiamo di rinforzi, poi, la città fece fronte alla minaccia raddoppiando il circuito delle mura sul lato nord: lo rivela l’andamento dei percorsi viari antichi in questa zona, e lo dimostravano anche le caratteristiche dei reperti – mura, torri, porta – messi in luce negli scavi di fine Ottocento in piazza San Giovanni.[27][28][29] Questo raddoppio delle mura era un accorgimento difensivo consueto, e, benché parziale, fu un’opera di grande impegno eseguita in una situazione di emergenza, per cui si deve aver fatto ricorso a tutta la mano d’opera disponibile, anche chiamandola da fuori. C’erano insomma i presupposti per incrementare i flussi migratori dalla Siria, dove tra l’altro stavano avendo allora sviluppo non solo i commerci e le coltivazioni, ma anche le attività artigianali nel settore edilizio,[30] per cui doveva proporsi il facile reperimento di maestranze capaci.
Trade and army networks
La presenza di una guarnigione deve aver fatto convergere a Firenze mercanti e trafficanti, ma anche missionari e sacerdoti di vari culti, dato che i militari erano legatissimi alle proprie devozioni, e in un simile contesto era inevitabile che con la frequentazione quotidiana che si stabiliva tra le famiglie dei residenti e quelle dei militari di guarnigione, nonché con i vari personaggi al seguito, si creassero dei legami, e che questi legami si allargassero anche alla sfera religiosa. L’evangelizzazione dei fiorentini deve essere avvenuta non soltanto per via di indottrinamento, ma anche con la consuetudine, gli esempi, la mutualità, cioè per le vie prospettate dai trade networks: un concetto che bisognerebbe adeguare a trade and army networks.
Si ha così una spiegazione assai più convincente rispetto a quella di un ipotizzato utilizzo da parte di mercanti qui da tempo residenti e che invece, secondo le probabilità, avrebbero dovuto fare propria la lingua del posto per evidenti motivi legati sia alla propria attività che alla consuetudine di rapporti che si dovevano col tempo essere stabiliti. Questi gruppi di ‘greci’ presenti a più riprese a Firenze negli anni a cavallo dei due secoli IV e V devono aver costituito una presenza insediatasi nel territorio e nel contesto sociale locale secondo modelli che – mutatis mutandis – ancora oggi riscontriamo, ad esempio, nelle basi militari presenti in Italia ma afferenti a paesi alleati: all’interno di esse si mantengono le leggi, le consuetudini, la lingua del paese di origine.
Borgo dei Greci
E infine: siccome la permanenza a Firenze dei costruttori del Tempio si deve essere protratta per circa vent’anni, considerando che assieme alle maestranze avranno dovuto trovare ospitalità in città anche i familiari, possiamo pensare che sia questa l’origine di quel borgo fiorentino che dei Greci mantiene ancora oggi una traccia toponimica. A Firenze, cioè, l’immigrazione dovuta al trasferimento di addetti alla costruzione del Tempio con le relative famiglie, dovrebbe aver causato agli inizi del V secolo un incremento della domanda di alloggi. Dove si poteva soddisfare questa domanda? Dato che nelle zone a nord, a ovest e a sud l’edificabilità era ridotta a causa dei corsi dell’Arno e del Mugnone, e in quella a sud anche per l’esistenza del cimitero in Oltrarno, un ampliamento poteva interessare soprattutto la zona a est, quella dell’anfiteatro, dove c’erano spazi, strade e corsi d’acqua. È presumibile quindi che lungo la strada suburbana verso Arezzo siano sorte nel tempo delle costruzioni, come sempre avviene in vicinanza dell’accesso a una città, e che lì si trovasse modo di soddisfare la nuova immigrazione: qualcosa di simile a quello che si verificò nel periodo di Firenze capitale con l’arrivo in città dei tanti impiegati dei ministeri piemontesi.
Correntemente il Borgo dei Greci è riferito ai possessi dell’antica famiglia dei Greci, ricordata in documenti del XII secolo e anche nella Divina Commedia; ma questa famiglia potrebbe essa stessa avere conservato nel suo nome la memoria di una lontana origine da gruppi orientali.
[1] Commercianti e fede: I, 62-63.
[2] Poco numerosi i cristiani: I, 57.
[3] A partire da Diocleziano, è istituito l’obbligo per i figli di militari e veterani di servire anch’essi nell’esercito. Gabba, Considerazioni…, 85.
[6] CIL, XI, I, 1708, 1711; Not. Scavi, 1957, 309. [DuCange, s.v.], [Daremberg-Saglio, Dict. Antiq. Gr. et Rom., s.v.]. La Schola Gentilium era, in particolare, un corpo di truppe scelte creato da Costantino, o forse nato ancora prima di lui. Di essa si ha notizia fino all’epoca bizantina.
[8] Quella di Mundilo (CIL, XI, I, 1707) è: HIC.IACET.MUNDI / LO.SEN.SCO.GE / NT.Q.VIX.P.M. / AN.XL
[9] La lapide di Segezio (CIL, XI, I, 1711) è quasi completa: B. M. / HIC.IACET / SEGETIVS / DE.SCOLA / GENTILIVM / QVI.VIXIT / ANNOS.TRI / (GI)NTA.ET.OCTO / D.P.SEXTO.ID(VS) / FEBR…
[10] La lapide di Pylades [Notizia Scavi, 1957, 309] e’ frammentaria: … (P)YLAD(ES) …/ … DVCINARIV(S) …/ DE.SCOLA.GEN / TILIVM.QVI / VIXIT.AN.P.M. / … DEP.EST / …(IN)PACE. Una lapide con l’indicazione di una schola fu trovata anche da Maetzke negli scavi del 1948: IX –Firenze. Resti di una basilica cimiteriale sotto Santa Felicita – Frammento di lapide di un ducinarius de scola gentilium (nome non conservato) tomba 21: p. 307 fig. 25 b), 309; M. osserva che altre due della schola già si conoscevano (nota 1 nella pag.), per cui questa è la terza. Scritta molto bene, come quella di M.; in latino.
[12] Jones, 167 e Not. Dignitatum.
[13] Gabba, Considerazioni…, 84.
[14] Dall’età costantiniana in poi è l’esercito di manovra che prevale: i limitanei già a partire dal IV secolo, e poi soprattutto dal V in poi, sono corpi poco efficienti, sedentari e dediti più alla coltivazione dei campi che alle esercitazioni militari. [Gabba, Considerazioni…, 84]
[15] Gabba, C., 92. Cfr. anche Jones, I, 167 e 208.
[16] Onorio sollecitò da Teodosio II l’invio di rinforzi. , e per di più in varie occasioni vi furono invii di truppe da Bisanzio e composte di barbari
[17] I movimenti di truppe furono allora frequenti [Fatucchi], e lo stesso Stilicone, all’epoca della crisi dopo Teodosio, trattenne presso di sé in occidente soldati dipendenti dalla Pars Orientis [Mazzarino].
[19] ripetute richieste di rinforzi che Onorio, proprio nei primi anni del V secolo, aveva sollecitato e ottenuto dal suo pari d’Oriente, Teodosio II.
[20] ancora tra il 412 ed il 421 l’imperatore Costanzo curò la creazione di una difesa stanziale nell’Italia nord-occidentale.
[21] Mazzarino, Stil. 277 nota 4
[22] La città, dopo il pericolo corso con Alarico, aveva apprestato le sue difese. [Mazzarino, Stil., 274 nota 2. Già nel 402 Roma aveva apprestato le sue difese [Mazzarino, Stilicone, 274]
[23] Secondo alcuni, la sconfitta avvenne il 29 agosto 406; secondo Mazzarino, l’invasione di Radagaiso va approssimativamente dalla fine del 405 all’inizio dell’autunno del 406. [Mazzarino, Stilicone, 75]
[24] Dalla Notitia Dignitatum sappiamo che esistevano la Schola Gentilium Seniorum e la Iuniorum.
[25] I soldati scelti, di stirpe barbarica (gentiles), erano chiamati dall’imperatore a servirlo, e a lui restavano vincolati da un patto di fedeltà.
[27] Mazzarino, Stilicone, 274 nota 2.
[28] Varrone ad es. parla di case pubbliche poste presso una porta di città (De re rustica, III, II). A Galli (p. 95) alcune caratteristiche dei resti archeologici suggerirono funzioni amministrative o militari: per cui sembra che ci vedesse qualcosa di diverso da un uso privato.
[29] Degl’Innocenti, p. 123 sgg. La biforcazione di strade formatasi all’estremità del decumano massimo (oggi via della Vigna Nuova e via della Spada, all’incrocio delle vie Strozzi e Tornabuoni), denota che non c’era uno slargo fuori porta perché, uscendo, si attraversava subito un ponte sul Mugnone; e questa correzione del suo corso aveva costituito un buon accorgimento difensivo, oltre ad essere utile per scaricare parte delle fogne cittadine.
[30] Dopo il 480 d.C. (…) nuove tecniche costruttive e di una migliore lavorazione dei materiali (Tadiello, pp. 30-31). Nascono anche attività di artigiani (Grassi, due coniugi p. 25). Ancora Grassi (Due coniugi ecc., p. 22 nota 54): Nel Gebel Zawîyé la qualità delle tecniche edilizie e dunque degli edifici migliora prima che nelle altre zone (Tate, Les campagnes, 316).
Le lapidi della piccola Mar[cell]a, con la data del 417 espressa con il nome dei consoli di quell’anno, e quella di Segetius, un militare della Schola Gentilium.
Secondo i libri, non secondo le pietre
In moltissime pubblicazioni e pagine internet si legge che il Battistero sarebbe il risultato di varie trasformazioni operate soprattutto nel primo medioevo. Ma se si va dentro le intercapedini e nei sottotetti a guardare le murature dove esse si mostrano prive di rivestimenti, ci appare invece la perfetta unità e omogeneità della costruzione.
Non c’è nessuna traccia di modifiche.
A chi diamo ragione, alle parole o alle pietre?
Le corna del Mosè
Che cosa c’entra il Battistero con la famosa questione delle corna del Mosè di Michelangelo? Niente, ovviamente, solo uno spunto di riflessione sulle scelte dell’artista che vorrei condividere con chi legge.
Come si sa, il Mosè di San Pietro in Vincoli ha in testa delle corna, invece dei raggi che si vedono in moltissime raffigurazioni e che indubbiamente sembrerebbero ben più adatti a rappresentare lo splendore del volto del profeta quando tornò dal secondo colloquio con Dio sulla montagna.
Ma Mosè aveva davvero un volto splendente? Al riguardo l’interpretazione del testo biblico (Esodo, 34, 29-35) propone qualche difficoltà: semplificando infatti piuttosto grossolanamente i termini di una questione molto complessa e oscura, secondo alcuni biblisti il suo volto avrebbe avuto invece un aspetto terribile, tanto che, quando lui se ne accorse, dovette coprirsi con un velo.
Questa incertezza nasce dalla difficile traduzione di una parola chiave che in ebraico può avere due letture – ‘karan‘ o ‘keren‘, in sostanza: ‘luce’ o ‘corna’ – di ognuna delle quali va capito l’esatto significato che avrebbe in quel contesto e se sia da intendere in senso letterale o traslato.
Ma per fortuna questo spinoso problema non ci riguarda: qui interessa solo cercare di capire il perché della scelta di Michelangelo.
Partiamo perciò dal fatto che Michelangelo si attenne al testo della Bibbia di San Girolamo, e che San Girolamo, delle due possibili traduzioni – raggi di luce o corna – scelse le corna scrivendo che Mosè, al suo ritorno, aveva una ‘cornuta facies’, un ‘volto cornuto’.
Per Michelangelo indubbiamente sarebbe stato preferibile scegliere i raggi, sia perché non avrebbe avuto difficoltà a creare qualcosa di raggiante e luminoso, sia perché una testa raggiante rappresentava un’iconografia consolidata. Trovare invece una forma adatta a connotare la ‘cornuta facies’ di un profeta senza avere a disposizione le illusioni incorporee degli effetti speciali che si vedono oggi, ma dovendola invece modellare in una forma ben solida e convincente sotto tutti gli aspetti, era un compito davvero difficile. Quali corna rappresentare?
Pensando a una qualunque specie dotata di corna del regno animale, dalla lumaca al cervo, ci si rende conto che Michelangelo era come stretto in un angolo. In ogni caso, poi, sempre due corna sarebbero state, e avrebbero avuto una valenza di simboli; e simboli di questo tipo potevano offrire agli osservatori malevoli facili occasioni per creare imbarazzo a Cristiani, Ebrei e allo stesso papa.
Ma lui evitò ogni pur velato o lontano richiamo a qualcosa di minaccioso o ironico o tanto meno demoniaco scegliendo le corna meno offensive: due cornetti appena spuntati, come quelli delle caprette che da ragazzo vedeva pascolare sui prati del Casentino.
Ma avrebbe potuto non scegliere le corna? No, non avrebbe potuto: a parte il fatto che non poteva fare la figura dell’ignorante, lui che conosceva molto bene le Sacre Scritture, attenersi al testo ufficiale approvato dalla Chiesa era inevitabile dato che lavorava per il papa e che per l’occasione aveva certamente a fianco qualche esperto biblista.
Però bisognava anche ipotizzare possibili critiche in malafede, e per esse credo – è solo una mia congettura, beninteso – che Michelangelo potesse avere un argomento per controbatterle, facendo cioè presente che le corna erano un simbolo appropriato per chi guida un popolo a conquistare una nuova terra; e spiego perché.
Parto un po’ da lontano ma farò il percorso più breve possibile.
Nelle cerchie degli intellettuali del Rinascimento era conosciuto il mito del dio romano preposto a vigilare sui confini, Terminus. Nell’antica Roma spostare di nascosto o senza permesso del vicino il confine di un campo o di un terreno di proprietà era considerato un delitto grave, che si puniva molto severamente. Poi qualcuno aveva fatto presente un cavillo: in fondo le guerre di conquista che il popolo romano faceva a tutto il mondo che cos’altro erano se non spostamenti non autorizzati di confini? Forse che lo stato romano predicava bene e razzolava male? Per la patria del diritto si poneva insomma una questione imbarazzante.
Così, per salvare la faccia i Romani trovarono un escamotage che era un capolavoro di ipocrisia. In base ad esso si stabilì che quando veniva nominato il comandante di una spedizione militare (dux), lui, durante l’espletamento della sua funzione, diventava il dio competente in materia di confini, Terminus appunto, lo strano dio che, come sappiamo, ebbe un rapporto con la costruzione del Battistero. Quindi, finché era in carica, il dux aveva il potere divino di spostare i confini dello stato, cioè di annettere i territori che riusciva a conquistare, perché gli dei di Roma avevano garantito ai Romani la conquista del mondo intero. Così, il dux sarebbe temporaneamente diventato lo strumento di un disegno divino, sarebbe diventato Terminus; e siccome Terminus era rappresentato come un palo di confine con la testa sagomata a forcella, anche dalla testa del dux ci si aspettava di vedere spuntare due corna; cosa ovviamente impossibile, ma si rimediava mettendogli in capo, nelle cerimonie e nei trionfi, una corona di quercia che le nascondesse, e tutti facevano finta di crederci.
Michelangelo quindi avrebbe potuto rispondere anche alle più maliziose obiezioni con un colto riferimento alle tradizioni classiche; e a questo proposito non mi sembra insignificante il fatto che le corna del suo Mosè siano chiaramente divaricate a forcella, diversamente dalle corna che si vedono sul cranio delle capre.
Il dispetto dei canonici
Il primo ospedale di Firenze era intitolato a San Giovanni Evangelista e fu costruito nel 1040 tra il Battistero e la cattedrale. Oggi sembra incredibile che in quello spazio così ridotto si costruisse un edificio, eppure la notizia è certa e documentata: l’ospedale era proprio lì, e dava molta noia, tanto che tutti in città, compreso Dante, ne chiesero a lungo la demolizione, che però arrivò solo nel 1298.
Per trovare una spiegazione per un fatto così illogico, per prima cosa possiamo guardare le piante di Firenze antica per avere una idea della posizione e delle dimensioni dell’edificio. Considerando di lasciare un minimo di spazio davanti alla cattedrale, si vede che l’ospedale poteva occupare un’area di circa 5 x 30 metri, cioè come 5-6 stanze affiancate; era quindi un ospedale atipico, perché allora di norma gli ospedali si costruivano intorno a un chiostro, cosa qui impossibile dato lo spazio ristretto. L’adattarsi al luogo rinunciando alla forma tipica ci fa capire che si voleva proprio occupare quell’area, altrimenti se ne poteva cercare un’altra più adatta al di là delle vicine mura, dove non ci sarebbero stati problemi di spazio.
Se poi ci chiediamo come poteva essere fatto l’edificio, dobbiamo tenere presente che un ospedale a quel tempo era qualcosa di molto diverso da quello che si intende oggi: era solo un ricovero per poveri e malati, senza avere nessuna finalità di cura.
Che fosse un edificio estremamente semplice ce lo indica il fatto che negli ultimi tempi fu usato come magazzino, e siccome nei vari scavi fatti ai tempi nostri non sono state trovare tracce delle sue fondazioni, che dovevano quindi essere state minime e superficiali e sostenere poco peso, si può dedurre che aveva solo il piano terra, il tetto in legno ed era stato eretto senza nessuna cura, probabilmente in fretta.
Ma soprattutto è significativa la scelta della collocazione a ridosso del Battistero, da cui distava solo un paio di metri, perché creava di fatto lo sbarramento della porta est. Questo ci offre la chiave per la spiegazione che cerchiamo, perché è evidente che ciò esprime una volontà di separazione tra i confinanti. E infatti questi erano in lite tra loro: da una parte il vescovo simoniaco, che aveva il possesso del San Giovanni (sul quale è probabile che esistessero anche rivendicazioni del Comune), e dall’altra i canonici della cattedrale che invece avevano la cattedrale ed erano sostenitori della riforma della chiesa.
Si capisce così che quella che oggi è la porta del Paradiso aveva per il vescovo un ruolo strategico perché rivolta verso la cattedrale, alla quale lui voleva collegarsi per tornare ad averne il controllo.
E invece quella porta venne allora resa inutilizzabile, e lo rimase a lungo: si sa infatti che per il culto e le cerimonie si usava la porta sud, dato che l’ingresso originario a ovest era stato chiuso per creare l’abside e la porta nord non era adatta alle processioni e ai riti perché troppo a ridosso delle mura.
Quindi in conclusione la costruzione dell’ospedale prefigurava in sostanza questa situazione: il vescovo voleva creare un rapporto tra il San Giovanni e la Santa Reparata ma i canonici che avevano il possesso di quest’ultima si opponevano.
L’ospedale era una specie di segnaposto della loro proprietà e dei loro diritti; e anche un dispetto al vescovo. Ed era anche significativo che lo avessero intitolato a San Giovanni Evangelista, quasi a voler creare un’alternativa all’altro San Giovanni lì accanto.
Dopo pochi anni, nel 1059, l’intervento di papa Niccolò II avrebbe riportato un po’ di ordine in una situazione davvero complicata; ma l’opposizione alla rimozione dell’ospedale fu comunque ostinata e durò due secoli e mezzo, a dimostrazione della volontà di non rinunciare ai propri diritti da parte dei canonici. Credo che questa resistenza si spieghi col fatto che essi dovevano essere rappresentanti di un clero minore che fu presente per secoli a Firenze, e che non voleva rinunciare ai diritti che si era procurato provvedendo alla cura dei fedeli nei lunghi periodi in cui il vescovo era stato assente; ma questo è un approfondimento di competenza di chi studia la storia della chiesa fiorentina.
Nel pavimento della piazza oggi sono visibili davanti alla cattedrale i segni della posizione delle colonne del portico di Santa Reparata, le cui fondazioni furono trovate in alcuni scavi del secolo scorso.
Planimetria dell’area di piazza del Duomo con indicata la posizione del Battistero di San Giovanni, quella dell’attuale cattedrale di Santa Maria del Fiore e, in grigio, quella dell’antica cattedrale di Santa Reparata. In azzurro è indicata la probabile posizione dell’ospedale di San Giovanni Evangelista, e in giallo l’allineamento delle mura della città romana; il transetto sinistro di Santa Reparata sembra in parte sovrapporsi ad esse, ma si tratta di un ampliamento medievale. Nella planimetria sono indicati anche alcuni scavi archeologici fatti sotto e intorno al Battistero, mentre la sagoma della Santa Reparata comprende anche il portico della facciata, del quale è segnata la posizione delle colonne.
(Dal rilievo di C. Pietramellara)
Che cosa stava al centro del Tempio?
Molti hanno cercato di capire che cosa stava sopra le fondazioni trovate al centro del Battistero, che corrispondono all’area del pavimento priva di marmi.
L’interpretazione prevalente è che ci fosse un fonte battesimale, ma è un’idea che non ha nessun senso dal punto di vista costruttivo: sarebbero fondazioni estremamente sovradimensionate per reggere un peso minimo, e il grande architetto del Tempio-Battistero non poteva essere così sprovveduto da fare errori così grossolani, tali che non avrebbe fatto nemmeno l’ultimo dei suoi manovali. Questa idea insomma è un’offesa alle sue capacità; e non parliamo di altre idee ancora più sbagliate.
Se invece quelle fondazioni sostenevano la colonna-trofeo della ‘statua di Marte’ e la sua edicola a colonne tutto risulterebbe costruttivamente logico e perfettamente proporzionato.
Dunque le fondazioni suggeriscono non un fonte battesimale ma un’edicola tropaica; e la curiosità ci spinge a cercare di immaginare come poteva essere fatta questa edicola.
Così ne ho tentato una ricostruzione, aiutandomi anche con l’immagine con cui Vasari in Palazzo Vecchio rappresentò il Tempio di Marte nella sua forma originaria. Ma se Vasari sbagliò perché il Tempio in origine non poteva essere fatto così, la forma da lui immaginata è invece perfettamente congruente con le fondazioni di cui si parla ma che lui al suo tempo non poteva conoscere. È un caso? Oppure Vasari aveva qualche documento da cui attinse quelle forme? O forse gliele suggerì Borghini sulla base di un documento che aveva lui?
Non lo sappiamo.
Però intanto le fondazioni qualcosa ci suggeriscono; e ne risulta un’immagine affascinante.
Al centro del Tempio di Marte doveva esserci un’edicola tropaica non molto dissimile da questa immagine. La parete della scarsella non è rappresentata perché al tempo quello era l’ingresso, che si apriva verso il cardo maximus cittadino. La colonna con la statua di Marte che si vede al centro è la stessa che oggi sta in piazza della Repubblica.
Le fondazioni centrali come apparirebbero se fossero visibili. In questo schizzo sono state soprelevate di circa 90 cm dal pavimento perché sicuramente l’edicola originaria era rialzata di qualche scalino.
Le fondazioni dell’ipotizzato fonte avrebbero avuto delle dimensioni grossolanamente sbagliate: quelle della balaustra (1) sarebbero state di larghezza uguale a quelle che sostengono le colonne (2), e quelle del plinto (4) sarebbero state addirittura più larghe di quelle perimetrali che reggono la cupola (3).
Piante degli scavi e del piano terreno. Le fondazioni centrali sono un anello ottagonale e un plinto quadrato.
Ricostruzione del fonte battesimale medievale fatta nel 1921 in occasione dei festeggiamenti danteschi.
L’antico fonte battesimale del San Giovanni doveva essere simile a quello che si vede nel Battistero di Pisa, e il suo peso era senza dubbio molto modesto. Si notino i pozzetti “fatti per loco d’i battezzatori” uno dei quali fu sfondato da Dante per salvare un bambino che vi stava affogando. L’officiante stava al centro e amministrava il battesimo passando in successione da un pozzetto all’altro.
Questo primo mio tentativo di ricostruzione della possibile forma dell’edicola tropaica, costituita da sole colonne, aveva alcune incongruenze con i reperti delle fondazioni, per cui successivamente l’ho dovuta correggere.
Particolare del dipinto della fondazione di Firenze di Vasari e Stradano nel soffitto del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio con rappresentato il Tempio di Marte originario. L’immagine non è congruente con l’effettiva costruzione dell’edificio ma con le fondazioni centrali trovate nel Battistero, per cui l’edicola del trofeo poteva avere una forma molto simile a questa.
L'ombrello del San Giovanni
“Negli anni di Cristo 1150 si fece fare il capannuccio levato in colonne”, scrive nella prima metà del Trecento il cronista Giovanni Villani riferendosi alla costruzione della lanterna di marmo che corona in alto il Battistero. Ma perché la chiama ‘capannuccio’ – parola che implica un giudizio di poca qualificazione – invece di usare il più appropriato termine di ‘lanterna’? E perché specificare che è ‘levato in colonne’? Forse che quello che c’era in precedenza non le aveva?
Dubbi che meritano un tentativo di spiegazione.
Partiamo da quando si presentò il problema, e cioè da quando la cupola era aperta con un ‘occhio’ da cui entrava la pioggia. Ciò causava, oltre che evidenti disagi, un dannoso infradiciamento delle murature, ed è molto probabile che, appena l’edificio fu usato come chiesa, si sia cercato di rimediare creando una protezione. Questa protezione non deve essere stata in muratura, perché sul tetto non ci sono tracce che lo facciano pensare: se fu fatta, probabilmente fu in legno, come un piccolo riparo appoggiato su dei colonnini ancorati ai marmi ma che lasciava aperti i lati. Varie miniature del codice Chigi (circa metà del XIV sec.), per quello che possono esserci d’aiuto, indicano questo.
Un manufatto simile sarebbe stato appropriato chiamarlo ‘capannuccio’; così il termine sarebbe poi rimasto a denotare ciò che c’era in cima al tetto del Battistero, come quello di ‘scarsella’ era rimasto attaccato alla strana abside rettangolare.
Andiamo adesso a vedere un’altra miniatura, quella del Codice del Biadaiolo, databile verso il 1340, quando già da un paio di secoli il ‘capannuccio’ era stato ‘levato in colonne’, e possiamo notare che la lanterna è appresentata priva di vetrate: quindi l’acqua a vento penetrava ancora nell’interno, minacciando la tenuta dei grandi mosaici. Lo si capisce da un particolare diligentemente annotato dal miniaturista: al piede delle colonnine si vede una protezione realizzata con assicelle o lastre di marmo messe di taglio per evitare che l’acqua del ripiano sgrondasse nell’interno. Il ‘capannuccio’ insomma garantiva una protezione ancora insoddisfacente: erano necessarie delle vetrate.
Non sappiamo con precisione quando furono inserite, ma il problema doveva essere da tempo ben noto a tutti, anche perché le infiltrazioni rendevano problematico il lavoro dei mosaicisti impegnati a conferire un’adeguata veste cristiana al monumento. Perché dunque il ritardo?
Probabilmente il motivo fu nel fatto che per inserire le vetrate si dovevano scalpellare i capitelli, e questo era da fare con molta cautela perché su di essi si scaricava il peso della trabeazione e della cuspide. In effetti l’ inserimento comportò molte rotture, cui si rimediò con altrettanti tasselli che documentano che c’erano parecchi altri capitelli a disposizione, E tutti evidentemente non potevano che provenire dall’originaria edicola che circondava la ‘statua di Marte’.
Nel titolo: particolare della miniatura del Codice del Biadaiolo in cui si rappresenta l’episodio dei Fiorentini che donano pane ai poveri cacciati da Siena per la grande carestia del 1328-30; si nota la lanterna senza vetri.
Sotto: la stessa miniatura per intero e particolare del Codice Chigi della Cronica (f. 80r) in cui si vede, al colmo del tetto, quello che sembra davvero un ‘capannuccio’ in legno, sia per la forma che per il colore.
Nella foto a sinistra si vedono le rotture dei capitelli della lanterna causate dall’inserimento delle vetrate e i tasselli con cui si è cercato di rimediare.
3 - Il Tempio non vestì Prada
11 – Il progetto in persona
A questo punto si proponeva un interrogativo: come si riuscì a gestire una costruzione così complessa operando in luoghi lontanissimi? La risposta richiederebbe un discorso molto lungo, ma vediamo in sintesi alcuni punti fondamentali.
Per i costruttori, l’imprescindibile, ovvia premessa di tutta l’operazione fu certamente quella di elaborare un progetto molto ben definito, che non comportasse correzioni, dubbi o ripensamenti, o li riducesse comunque al minimo, altrimenti, date le distanze su cui si operava, tutta l’operazione sarebbe stata un fallimento. E il Battistero testimonia pienamente che si seguì questa strada, perché è un meccanismo talmente perfetto da aver suscitato l’incondizionata ammirazione di tutti i più grandi architetti di ogni epoca. Il progetto del Tempio non ammetteva modifiche.
Ma questo progetto, materialmente, com’era fatto?
Nel mondo antico non esistevano i sistemi di rappresentazione usati nel disegno tecnico di oggi, ma si sapevano disegnare piante, sezioni, particolari, e si usavano modelli, sagome, campioni. L’insieme di queste rappresentazioni parziali doveva però trovare chi le sapeva gestire, e questo era l’architetto. Al tempo, insomma, il progetto non era un insieme di documenti, cioè di tavole disegnate e di pagine scritte, come è oggi, ma era una persona, era l’architetto stesso, che sapeva utilizzare i disegni e i modelli che servivano e che impartiva le istruzioni operative a chi doveva realizzare l’opera. Come un direttore d’orchestra che conosce a memoria lo spartito, lui insomma doveva avere ben chiare nella sua mente tutte le singole operazioni necessarie a costruire l’edificio, ed era pronto a spiegarle a capimastri e operai e a risolvere i loro problemi, in modo da portare a termine con successo la costruzione rispettando i patti stabiliti nell’appalto.
L’architetto possedeva questa qualificazione non solo per capacità personali e per gli studi fatti, ma anche per aver maturato un adeguato tirocinio pratico presso un collegio di costruttori o un’impresa. E per quest’ultimo aspetto è da credere che l’architetto del Tempio fosse di origine greca o mediorientale, dato che i maggiori centri di produzione dei marmi per edifici monumentali erano in area ionica, e che si fosse trasferito a Firenze per seguire i lavori insieme a un gruppo di collaboratori che dovevano tenere i rapporti con gli esecutori e con i fornitori di materiali. Oltre a questo ruolo di sorveglianza e coordinamento, a lui spettava anche il compito di tenere i rapporti con i committenti, ai quali doveva rispondere dell’andamento dei lavori.
12 – Il Tempio non vestì Prada
Il ruolo di un architetto romano era molto diverso da quello che si intende oggi; e meno male, perché non oso pensare a che cosa sarebbe avvenuto se per costruire il Tempio i duumviri di Florentia si fossero rivolti, come fanno i nostri sindaci, a un archistar di grido, se al tempo ne fosse esistito qualcuno. L’archistar avrebbe sicuramente dato dimostrazione della sua fantasia e del suo gusto creando un capolavoro-griffe, fatto a sua immagine e somiglianza, secondo cioè il suo brand personale; e così noi oggi avremmo avuto il Tempio di Prada, o di Armani, per dire di una grande firma dell’architettura, della cui maison avrebbe recato l’impronta riconoscibile e indelebile.
Per nostra fortuna, e per fortuna di Firenze, della storia dell’arte e dell’architettura, le cose non sono andate così. Il Tempio non poteva recare i segni distintivi di un singolo personaggio, perché doveva rappresentare Roma, la sua storia, la sua cultura, il suo popolo. Doveva essere un monumento corale: l’architetto aveva la libertà di esprimersi come tecnico e come artista, ma dentro una cornice rigida, che era quella dei simboli da usare e dei messaggi da veicolare.
La forma ebbe dunque delle ragioni precisissime, e non è esagerato dire che fu emozionante scoprirle alla luce non solo dei soliti preziosi testi di archeologia classica, ma anche di quelli della religione romana. Ciò non deve sorprendere, perché nel mondo romano il naturale e il soprannaturale coesistevano in una sovrapposizione perfetta, che a noi moderni riesce difficile immaginare riversata nei mille rivoli dell’esistenza quotidiana nella quale per noi il soprannaturale è ristretto in ambiti molto limitati, o non rientra più.
Avevo un’altra chiave di lettura del monumento che si aggiungeva alle precedenti: quella progettuale.
13 – All’esame dei prof
Avevo trovato così un’altra chiave di lettura del monumento, quella progettuale, e come docente di progettazione non resistetti nemmeno un minuto alla tentazione di immaginare come sarebbe andato l’esame dell’architetto.
Ecco qua l’esito della fantaprova.
Tema 1 – Celebrare la gloria di Roma
Il candidato dimostra un’adeguata conoscenza dell’arte trionfale proponendo una composizione basata su uno spazio centrale con edicola e trofeo. I simboli sono espressi con la giusta evidenza e risultano comprensibili anche da un illetterato. Apprezzabile l’interpretazione in chiave metastorica dello spazio interno. Poco originali i simboli eroici posti nelle rosette di alcuni capitelli.
Giudizio: discreto.
Tema 2 – Celebrare il condottiero vittorioso
Il candidato propone di raffigurare l’imperatore con una statua equestre posta su una colonna al centro dell’edicola; la composizione è corretta ma non particolarmente originale.
Giudizio: sufficiente.
Tema 3 – Progettare lo spazio delle udienze
Il candidato propone di porre sul pavimento una normalissima rota porfiretica, ma la arricchisce con un disegno piuttosto originale che bene visualizza la distanza da tenere rispetto alla sacra persona del sovrano.
Giudizio: buono.
Tema 4 – Progettare gli apparati per il culto dell’imperatore
Il candidato propone di creare due eventi simbolici incentrati sulla proiezione di raggi solari nell’interno. Uno consiste nel captare, al mezzogiorno del solstizio d’estate, la massima potenza dell’astro grazie a una speciale meridiana da realizzare verso la porta nord; l’altro invece nel celebrare ogni mattina all’alba la vittoria del Sole sulle tenebre della notte facendo attraversare la porta est dai primi raggi del giorno.
La commissione osserva che le proposte non sono particolarmente originali perchè rientrano nelle correnti tradizioni, ma la messa a punto della meridiana a nord appare molto problematica, mentre per la porta est ne dovrebbe essere evidenziato il ruolo simbolico con qualche elemento che lo sottolinei.
Giudizio: piuttosto cervellotico ma originale; buono.
Tema 5 – Idee per formulare un augurio di prosperità e pace
Il candidato propone di non modificare l’unità dello spazio del Tempio con aggiunte improprie, ma di creare, in occasione della cerimonia inaugurale, un allestimento effimero incentrato sui simboli del dio Terminus, che sono appropriati per esprimere il concetto dell’augurata resistenza dell’impero davanti alle invasioni in modo comprensibile a tutti.
Giudizio: sufficiente.
Il candidato è approvato, voto 28/30.
(seguono data e firme illeggibili)
Giudizio non brillante, come si vede, ma quei prof di poca apertura mentale (ce ne sono, sapete?) giudicavano guardando tutto con i paraocchi dell’arte ufficiale, e probabilmente erano anche un po’ invidiosi della bravura del candidato. Succede. Meno male però che non hanno respinto l’idea di Terminus: senza Terminus questa ricerca non sarebbe potuta iniziare.
14 – Un sequel a lieto fine, ma…
Superato l’esame, fine della ricerca? No: ne iniziava un’altra sulla seconda vita del monumento.
Un sequel.
Ambientazione: una prospera città di provincia, gente concreta, dedita al lavoro.
Trama: la realizzazione di un nuovo look che renda presentabile il protagonista, un ex Tempio di Marte.
Ma presentabile per chi? Vediamo un po’ (in ordine di entrata in scena).
Per i cattolici? Impazienti, se ne impossessano subito ma sono presto buttati fuori.
Per gli ariani? Subentrano valendosi di protezioni politiche, ma non durano perché scoppia una guerra.
Per i bizantini? Occupano la città in mezzo a lotte furibonde coi goti; hanno altro a cui pensare.
Per i goti? Per scaramanzia evitano Firenze memori di quanto ha portato male a Radagaiso.
Per i fiorentini? Nel dopoguerra hanno solo gli occhi per piangere e sono tiranneggiati dai Fiesolani.
Per i Longobardi? Tipacci, figuriamoci.
Per i Franchi? Forze di occupazione.
Per il vescovo? Sparito per secoli.
Ma insomma per chi?
Il protagonista, il nostro Tempio, è ormai un trovatello degno di un romanzo di Dickens. Nessuno è in grado di rivendicare proprietà o diritti, chi ha il potere in città lo vorrebbe per sé perché è bello e dà prestigio, ma non ci spende un centesimo per mantenerlo. Non si sa nemmeno come chiamarlo, perché battistero non è, né che cosa farne di preciso: l’utilizzo religioso non è esclusivo, ci si fa un po’ di tutto, regna una grande confusione.
Il sequel è noioso, non succede nulla, l’auditel precipita. Ci vuole un personaggio che faccia volare gli indici di ascolto. E finalmente eccolo: è potente, colto, ama Firenze. È il papa, che si vuole di più?E papa Niccolò agisce: decide l’utilizzo esclusivo come battistero, trova gli sponsor che hanno i soldi, avvia un programma di lavori e decorazioni. Evviva papa Niccolò.
Tutto chiaro, tutto bello. Salvo un punto: se il Tempio diventa ufficialmente il battistero cittadino, la piccola e sgraziata Santa Reparata non può proporsi come la sua cattedrale. Finché i ruoli sono diversi, vabbè; altrimenti il confronto è impietoso, Firenze fa una figura ridicola davanti a tutti quelli che passano per andare a Roma, per non dire del paragone con Pisa. Comunque la decisione è presa: anche se si dovrà costruire una cattedrale più grande e più bella, e anche se questo vorrà dire una spesa enorme, il Tempio di Marte diventa il Battistero di San Giovanni.
Si iniziano così i lavori, ma senza avere ben chiaro che la nuova cattedrale avrebbe dovuto avere una cupola come non se n’erano mai viste; e questo avrebbe potuto voler dire un disastro.
Ma per fortuna sappiamo come andarono le cose.
15 – Titoli di coda
Dunque quello che all’inizio sembrava un film muto aveva alla fine trovato la sua traccia sonora, e aveva fornito una spiegazione anche di ciò che pareva inspiegabile, o che si era tentato di spiegare in ogni modo, anche con contorcimenti mentali al limite dell’assurdo. Aveva anche spiegato tra l’altro la leggenda di Marte, nata in un contesto di tristissime vicende che avevano al centro proprio il Tempio, e per le quali si spiega l’amore profondo dei fiorentini che vedevano nel loro Tempio-Battistero il testimone delle loro disgrazie.
Il risultato raggiunto apriva un invitante panorama di possibili ricerche, ed era deprimente pensare a quanto l’insistita idea del monumento medievale aveva fatto perdere a chi studia l’arte e la storia, a chi le insegna, a chi ama Firenze.
Avevamo scoperto che al centro di Firenze c’è un edificio che è l’unico del suo tipo giunto fino a noi integro, e che quindi poteva essere studiato in questa nuova, ampia prospettiva, anche considerando che nei tre quarti del suo sottosuolo che sono ancora da scavare si trovano certamente molti altri reperti integri e interessantissimi. Ad esempio, resti di frutti e di raccolti che potrebbero parlare delle coltivazioni praticate allora, o impasti di calci che potrebbero essere sottoposte a prove di datazione per confrontarle con quelle dei letti murari dell’elevato. Molte sono dunque le ricerche che si potrebbero fare, e con prospettive ben più positive di quelle per esempio che si avevano quando si è andati a cercare i resti di Monna Lisa a Sant’Orsola.
Questo stimolante scenario di nuove ricerche pensavo potesse interessare chi studiava l’argomento, ma mi sbagliavo. Ufficialmente il Battistero resta romanico. Si continua a credere vera una storia che invece non sta in piedi.
Vogliamo dire che si è rivelata una balla colossale? Ormai, a chi dice che il battistero è romanico si può credere solo per fiducia nella sua autorevolezza, perché invece, seguendo le indicazioni delle cronache, si arriva a spiegare tutto in maniera non contraddittoria e senza il bisogno di riscrivere la storia dell’arte da capo, rovesciando tutti i criteri fin qui usati e condivisi. Come voler sostenere che il mare è una conseguenza dei pesci, e non viceversa.
Insomma: alla fine sono arrivato in cima al Battistero. È stata una faticaccia, ma di lassù si vede un panorama bellissimo.
E chi crede che è un edificio romanico non sa quello che si perde.
2 - Le chiacchiere degli umarell
6 – Non erano Sturmtruppen
Tutto ciò aveva un senso. Ero dunque sulla buona strada? Sì, anzi no: dovevo ancora risolvere la questione dei resti delle case romane. Tornai così a disturbare i miei amici custodi, a rileggere le relazioni degli scavi, a guardare con la lente di ingrandimento le fotografie dei reperti, e alla fine mi si aprirono gli occhi. Corsi nel sottosuolo del Battistero a controllare, ed era proprio così. Ma quale furia devastatrice delle Sturmtruppen barbariche! Quelle case non erano state distrutte, ma meticolosamente demolite: stesso risultato, ma una differenza fondamentale.
Possibile? Ciò infatti voleva dire che il Tempio era stato costruito su un’area edificata, quando le case erano ancora in piedi e abitate, e che erano state demolite per fargli posto. Un altro problema da risolvere, altrimenti tutte le mie ipotesi crollavano come il classico castello di carte.
Ripresi perciò con ansia a scartabellare i testi di archeologia, e ancora una volta vi trovai la soluzione. Il trofeo si doveva collocare a fronteggiare il pericolo; a Firenze, dunque, lo si doveva porre presso le mura nord, nella direzione dei passi montani verso il Mugello da cui era sceso Radagaiso e da cui potevano presentarsi ancora i nemici. Non solo: bisognava farlo dentro le mura per non creare un utile caposaldo per un assediante e il più vicino possibile alla porta nord perché appena fuori di essa passava il Mugnone, il corso d’acqua utilizzato per fare arrivare i carichi e i marmi che avevano risalito l’Arno.
Tutto a posto dunque. Ma davvero le autorità cittadine potevano imporre una scelta del genere? Qui la ricerca si allargava a temi che riguardavano la proprietà dei suoli delle colonie romane e di quell’area in particolare, e anche la struttura urbana della Firenze di allora, ma trovai elementi di coerenza anche per questi argomenti. Tutto rientrava nella prospettiva di un intervento eccezionale, di quelli che oggi si chiamano ‘di somma urgenza’ e che si attuano con procedure straordinarie; e lo dimostrava anche il fatto che quel tratto di mura mostrava opere fatte in fretta.
7 – Terribile ma umano
A questo punto mi sembrava di avere raggiunto il desiderato chiarimento su tutta la faccenda. Il Battistero poteva essere pienamente riconosciuto come un monumento classico, e la teoria della sua origine nel medioevo poteva finire nella pattumiera con il principale argomento a suo sostegno ridotto in briciole. Intere biblioteche da buttare.
Ovviamente ciò non accadde: quelli del passato no, ma gli studiosi di oggi sono tutti a favore della datazione medievale, e le mie idee non hanno certo turbato i loro sonni. A me comunque importava vedere dove mi portava la ricerca, e quello che stava emergendo era un racconto convincente, lineare e anche – aspetto molto importante – in pieno accordo con le antiche cronache: tolti infatti gli infiorettamenti e le fantasie inevitabili nei racconti tramandati oralmente di generazione in generazione, risultava che i fiorentini nella sostanza non avevano raccontato balle.
Tutto a posto allora? Nient’affatto. Fermo, immobile, silenzioso attendeva ancora una risposta il personaggio da cui tutto aveva avuto inizio: Terminus. In questo scenario, lui che c’entrava?
C’entrava eccome, perché Terminus, massimo simbolo di stabilità e fermezza per qualunque romano, fu al centro dell’accorato, commovente messaggio di augurio e di speranza che fu affidato al monumento per consegnarlo all’eternità. Il Tempio cioè non era soltanto un memoriale di guerra e un simbolo di minaccia e potenza, ma anche il depositario di un corale e profondamente sentito augurio per le sorti del popolo, della città e dell’impero. E questo aspetto ‘umano’ del terribile monumento tropaico spiega il profondo legame con i fiorentini, che andava al di là dell’arte e della bellezza, perché i cittadini ricordavano che in esso era accesa una fiammella di speranza che non si sarebbe spenta, nonostante tutto. Ma per spiegare tutto ciò devo prima aprire una breve parentesi su ciò che accadde a Firenze nei giorni di Radagaiso. Avverto che userò un pizzico di fantasia, ma la sostanza del racconto è data da riferimenti storici certi.
8 – Cronache marziane
Quando il re goto a capo di un’orda enorme scese dal Mugello preceduto da una meritatissima fama di crudeltà, Firenze deve essere piombata nell’isteria: ancora qualche giorno e la città sarebbe stata travolta, le case devastate, gli abitanti uccisi o ridotti schiavi. Un incubo. Invece all’ultimo momento arrivò Stilicone a capo di truppe venute fin dalla Gallia e tutto si risolse in un finale che precedeva di quattordici secoli quello di ‘Ombre rosse’. Parve un miracolo, anzi si credette davvero che lo fosse: al cielo salirono ringraziamenti e preghiere di ogni tipo, mentre qui in terra ci si sfogava sui prigionieri.
Anche Stilicone aveva pensieri molto terreni. A corte i senatori suoi nemici gli tramavano contro influenzando l’imperatore Onorio, per cui pensò di lusingare quel giovane rammollito attribuendogli il merito della vittoria con una grande celebrazione; in questo modo avrebbe anche motivato l’esercito, composto da truppe eterogenee e raffazzonate (perfino molti guerrieri di Radagaiso colsero l’occasione per arruolarsi), truppe che avevano bisogno di credere nei grandi destini di Roma non tanto per alti ideali quanto per sperare di fare bottino. Così fece subito riempire le tasche dei suoi soldati con la vendita come schiavi di migliaia di prigionieri, e in un tripudio di festeggiamenti fece sfilare le truppe in città, dove aveva fatto costruire in fretta un arco di trionfo. Ai fiorentini propose poi di erigere un monumento grandioso, da realizzare in tempi rapidissimi, quasi presentisse la brutta fine che avrebbe fatto due anni dopo, e l’idea trovò immediato consenso (e chi poteva obiettare?), anche perché la città era una colonia di ex militari e certe tradizioni dovevano essere molto vive.
Le cronache dicono che ci si rivolse ai migliori costruttori dell’impero tramite i senatori di Roma, e ciò è rispondente alle prassi di allora, oltre che perfettamente logico: bisognava affidarsi a chi queste cose le sapeva fare, e a Roma c’erano le persone che tenevano i contatti tra il mondo politico e quello dei grandi appalti. Ad esse i fiorentini furono indirizzati dallo stesso Stilicone (o forse da sua moglie Serena, che era ben introdotta: chissà), chiedendo ciò che di più bello si poteva fare e garantendo la copertura delle spese. Perché qui c’era il punto debole di tutto il programma: i soldi. Stilicone non li aveva e Onorio nemmeno. I fiorentini invece non dovevano passarsela male, e così, con occhi velati dall’entusiasmo, sottoscrissero un sostanzioso contratto, una vera manna per i costruttori in un tempo di totale crisi degli appalti pubblici, ma una trappola per gli inesperti coloni. C’erano infatti tutte le premesse per un intrallazzo edilizio in grande stile, in cui tutti avevano la loro parte, compreso l’imperatore, incurante del conflitto di interessi per le forniture di marmi dalle cave di sua proprietà. E i fiorentini, che si erano impegnati a pagare, pagarono.
Alla fine l’opera fu davvero la più bella che si potesse desiderare, ma costosissima: analizzando con l’occhio di un geometra di cantiere la successione delle opere eseguite, si capisce molto bene che le ultime furono tirate via, e ciò vuol dire che i pagamenti andavano male: si erano sforati tutti i preventivi e ora le casse della colonia erano praticamente vuote. Ma con un po’ di buona volontà si riuscì a portare a termine il Tempio: c’era voluta una ventina d’anni, e facciamo pure i confronti con l’oggi.
9 – Le chiacchiere degli umarell
Dato che l’occhio del geometra mi sembrava che funzionasse egregiamente, pensai di utilizzarlo per allargare l’indagine ai temi molto prosaici del cantiere e dell’appalto, tentativo che si poteva fare perché il monumento è sostanzialmente integro, frutto un intervento unitario e con poche e secondarie modifiche. Pensai così di incrociare i dati che si ricavavano dall’analisi della costruzione, dai rinvenimenti degli scavi e da qualche accenno contenuto nelle cronache (accenno che sicuramente era l’eco delle chiacchiere degli umarell che anche allora passavano il tempo a sbirciare da dietro le recinzioni quello che facevano i muratori) con le procedure di un appalto e con le operazioni di un cantiere, che nelle grandi linee sono le stesse allora come oggi, come gli orologi antichi misuravano il tempo con criteri uguali a quelli moderni.
Così, come un falegname che per infiggere un chiodo pensa al tipo di martello da usare e al tipo di legno in cui va piantato, cercai di porre ogni dato nel contesto operativo cui poteva essere riferito, e fu confortante constatare che il risultato formava un quadro coerente.
Finalmente dunque i muri parlavano, e per ascoltarli era bastato sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda indicata dal geometra: la successione delle operazioni che si fanno per costruire.
All’inizio c’era stato l’appalto: e dalle vicende storiche, come si è visto, si poteva desumere come nelle grandi linee fossero andate le cose.
Poi emergeva il ruolo dell’impresa: una grandissima impresa certamente, che, data la ristrettezza dei tempi e la complessità dell’organizzazione, si era dimostrata preparatissima, non solo per avere fatto cose belle, ma per essere stata capace di gestire un appalto a distanza, in più luoghi e coordinando tempi, trasporti, forniture, lavorazioni, progetti, mano d’opera, pagamenti.
Cuore di tutta l’operazione fu il progetto, che operativamente doveva essere redatto in sintonia non solo con i committenti, dato il loro potere e le loro particolari esigenze, ma con l’impresa, che in base al progetto doveva organizzare forniture, lavorazioni, trasporti: il progetto non fu quindi solo un capolavoro di estetica ma anche di professionalità.
Insomma: il Battistero-Tempio non andava visto solo come un capolavoro di architettura, ma anche di capacità imprenditoriali e organizzative di una grande impresa del mondo antico.
Perciò ero sempre molto prudente quando qualcuno mi avvertiva dei risultati di una nuova analisi di qualche campione di materiali fatta con gli strumenti più sofisticati, dimostrando l’entusiasmo di chi pensa che da un singolo dato possa venire la soluzione di un problema così articolato. Sul piano del metodo un simile atteggiamento è assolutamente da evitare, e se accade di riscontrarlo bisogna pensare che sia dovuto a ingenuità, ignoranza o mala fede.
10 – Con gli occhi del geometra
Messe dunque da parte le valutazioni estetiche e artistiche, mi calai ancora nel ruolo di geometra di cantiere e cercai di riflettere sul compito che aveva dovuto affrontare l’architetto come tecnico responsabile di un’opera così impegnativa. Era logico pensare che nelle sue scelte avesse tenuto conto degli obblighi fissati nel contratto di appalto, e in questo senso mi parve molto significativo che avesse impiegato marmi greci: una scelta che appariva non dovuta a valutazioni estetiche, dato che marmi simili si potevano trovare anche in Toscana, ma a fattori di convenienza operativa, come ad esempio per i costi e l’affidabilità di fornitori di fiducia.
Questo confermava un appalto gestito molto lontano da Firenze, da costruttori capaci di far fronte a grandi commesse di marmi lavorati, trasferire materiali e manodopera, organizzare, controllare, contabilizzare. Tutto tornava con quanto raccontato dalle cronache: «mandaro al senato di Roma che mandasse loro gli migliori e più sottili maestri che fossono in Roma».
Anche i testi di archeologia mi confermavano che le mie ipotesi stavano in piedi, ma verificandole nel concreto di ciò che mostrava il monumento, nuovi interrogativi sorgevano di continuo. I rivestimenti erano stati interamente lavorati in cava oppure c’erano anche parti fatte a Firenze? E la manodopera era anch’essa venuta da lontano o in parte era locale?
Alcune indicazioni sembravano prospettare una collaborazione tra operai esperti venuti da fuori, e operai del posto, di basso livello e quindi guidati dai più esperti. E un così bravo architetto non poteva non aver tenuto conto di queste condizioni nell’elaborare il suo progetto: forse il largo uso di disegni geometrici dei rivestimenti poteva essere stato considerato il più idoneo per motivi pratici, date le difficoltà del montaggio a distanza.
Peraltro, alcuni particolari dei rivestimenti dimostravano un’accuratezza, una finezza che si potevano spiegare solo con l’opera di mani abilissime sotto il controllo diretto di occhi esperti. L’impresa doveva aver affidato a operai di sua fiducia quei lavori così delicati, come d’altra parte era logico attendersi in un contesto del genere; e molti operai dovevano essere rimasti a lungo a Firenze, anzi per sempre se si pensa a quel borgo fuori porta, di remote origini, che sarebbe stato chiamato ‘dei Greci’.
Si può credere che fosse un decoratore romanico colui che ha fatto questo piccolo capolavoro di geometria?
1 - Jekyll e Hyde
Premessa
1 – Come caddi in un buco nero
Tutti conoscono il Battistero di Firenze, il Bel San Giovanni tanto amato da Dante, e per tutti è ovvio che è un battistero e un capolavoro dell’architettura fiorentina. Secondo me invece non è vero niente, non è un battistero e non è un’opera fiorentina; e chi vuole sapere perché può leggere quello che ho scritto sull’argomento. Qui invece racconto come sono arrivato a una conclusione così bizzarra: un cammino lungo e spesso segnato dal caso.
Tutto ebbe inizio molti anni fa, quando, durante la discussione di una tesi in Architettura, il prof. G., presidente della commissione, interruppe un laureando che aveva accennato ad inoltrarsi nell’argomento delle origini del Battistero: «Guardi, lasci perdere, questo è un problema da far tremare i polsi». Rapido dietrofront del tapino, che riuscì così a laurearsi, ma quel brusco stop del prof. G. mi fece riflettere. Dunque – pensai – al centro di Firenze, e nel cuore della sua storia e della sua arte, c’è un buco nero profondissimo, nel quale si sono persi chissà quanti esploratori. Ma non potevo certo immaginare che mi sarei trovato anch’io ad essere uno di loro. Andò così.
Un pomeriggio, passando per una via del centro da cui non passo mai, scoprii un negozio di libri di seconda mano che aveva in un angolo della vetrina un volumetto bigio che mi incuriosì: «Terminus – I segni di confine nella religione romana». Fu così che feci la conoscenza con questo stranissimo dio – Terminus era appunto un dio – la cui sola funzione era quella di stare piantato in terra e non fare assolutamente nulla. Spiegare perché gli antichi Romani, gente di buon senso, avessero concepito una divinità così anomala sarebbe un discorso che riserverebbe molte sorprese, ma ci porterebbe lontano: qui basti dire che, come avrei scoperto di lì a poco, nel mito di questo personaggio era nascosta la chiave di quel problema che faceva ‘tremare i polsi’.
Passarono alcuni mesi; poi, un giorno in cui me ne stavo a casa malato, sfogliando per passatempo la Cronica del Villani, capitai dove si racconta che, quando il Battistero era un Tempio di Marte, aveva la cupola aperta in alto come quella del Pantheon, e che quell’apertura era stata fatta perché la statua di Marte che ci stava sotto doveva necessariamente rimanere «scoperta al cielo». Questa spiegazione assurda mi incuriosì, perché è evidente che spiegare con le esigenze di una statua la creazione di un’apertura da cui entravano acquazzoni che infradiciavano i muri e correnti d’aria che causavano bronchiti e raffreddori è un nonsense degno di Lewis Carroll; oltretutto, Villani avrebbe potuto facilmente inventarsi qualcosa di più plausibile, ad esempio che l’architetto aveva voluto imitare il Pantheon. Se dunque aveva sfidato il ridicolo doveva essere perché quell’informazione l’aveva copiata da una fonte molto autorevole, probabilmente un testo conservato negli archivi del Comune che lui frequentava.
E infatti quella sua fonte meritava fiducia, perché quell’informazione aveva una base di verità che Villani non conosceva, ma io sì, grazie a quel volumetto bigio dal quale ero venuto a sapere che lo stare «scoperto al cielo» era una precisa caratteristica del dio Terminus, inconfondibile come un’impronta digitale o un codice a barre. Poteva esserci un equivoco? No, perché due righe sotto Villani aggiungeva che la statua non doveva essere spostata, altrimenti Firenze ne avrebbe avuto terribili sconvolgimenti, e anche questa era un’altra inequivocabile impronta del dio immobile, perché se qualcuno lo spostava lui la prendeva molto male e succedeva il finimondo.
Da tutto ciò trassi la conclusione che un antico testo consultato da Villani riferiva l’esistenza di un legame tra la statua, il dio Terminus e il Battistero; anzi, con il progetto del Battistero, perché lasciare aperta la cupola doveva essere stata una decisione che aveva coinvolto architetto, committenti e costruttori; e doveva anche trattarsi di un caso diverso da quello del Pantheon, per il cui grande occhio nessuno ha mai prospettato l’idea che sia stato fatto per un motivo del genere.
Mi sembrava una conclusione logica. Ma che senso aveva tutto ciò?
2 – Niente quiz in tv
Spinto dalla curiosità cominciai così a informarmi sulla ‘questione Battistero’, e ben presto mi resi conto che effettivamente era un argomento da far tremare i polsi, perché oggetto di discussioni che andavano avanti da secoli coinvolgendo legioni di studiosi agguerritissimi.
In sintesi: l’evidente classicità del monumento fa pensare che sia romano, ma la teoria oggi prevalente è che invece sia medievale perché scavandoci sotto sono stati trovati i resti di case romane, per cui è parso logico dedurre che sia stato costruito dopo la distruzione dell’antica Florentia.
Il tentativo però di trovargli una collocazione plausibile nell’arco del medioevo ha messo a dura prova i cultori della materia, che hanno scritto di tutto e il contrario di tutto, finché alla fine quelli oggi più autorevoli hanno detto basta: non sappiamo dire esattamente perché, ma il Battistero non può che essere medievale, fidatevi. E questo è quanto si legge sui testi di scuola, su quelli di divulgazione, su pubblicazioni patinate, sulle enciclopedie, su internet, sulle guide turistiche, sui dépliant degli alberghi, sugli involti dei cioccolatini, dappertutto insomma, tranne che nei quiz a premi della tv, perché il notaio di turno non saprebbe come giudicare la risposta di un concorrente, qualunque essa sia.
I dubbi dunque restano, sono stati solo spazzati sotto il tappeto, e lì stanno in compagnia di quella stranissima leggenda che legava Marte non solo al Battistero, ma anche alla città, della quale, come ci ricorda Dante, era stato il ‘primo padrone’ con sinistri poteri.
Che senso aveva quella leggenda? Secondo gli studiosi erano tutte balle; però ci sarà stato pure un motivo se a Firenze tutti, proprio tutti, popolo e intellettuali, ci hanno creduto per secoli; ma quale motivo? Per trovare una spiegazione, qualcuno avanzò l’ipotesi di un’oscura trama a sfondo politico-culturale ordita a vantaggio dei Medici, ma l’idea non ha incontrato l’interesse nemmeno di chi scrive le fiction.
3 – Come un film muto
Così io, che come ho detto ero ormai sopraffatto dalla curiosità, pensai di tornare sul monumento con la pia illusione di cogliervi, chissà, qualche indizio di non so che cosa sfuggito a tutti.
Chiesti i dovuti permessi, lo visitai da cima a fondo, suscitando anche la curiosità dei custodi, che mi avevano sempre tra i piedi, tanto che un giorno, andando su fino alla lanterna (escursione sconsigliabile a chi soffre di vertigini), uno di loro mi chiese educatamente che cosa stessi cercando. Spiegai che insegnavo ad Architettura e che volevo fare uno studio sul Battistero: «Ah, mi fa piacere accompagnare chi studia: quassù non s’era mai visto nessuno». Trovai l’osservazione un po’ inquietante: quanti libri erano stati scritti senza una conoscenza diretta del monumento?
Dalle mie visite però stavo ricavando meno di nulla: osservavo, appuntavo, fotografavo, ma non capivo un’acca. Il Bel San Giovanni era un film muto di cui mi sfuggiva la trama. Solo alcuni particolari della lanterna sembravano confermare che effettivamente in cima alla cupola c’era stata un tempo un’apertura, ma questa non era una novità, perché al riguardo nessuno aveva formulato obiezioni. Su tutto il resto, buio fitto.
Se i muri restavano ostinatamente silenziosi, però, una vaga speranza mi veniva dai miti, perché ora, alla lunga catena di storie e leggende che legava la città, il Battistero e il dio Marte, si era aggiunto un anello, Terminus, il cui ruolo era tutto da interpretare, ma di sicuro era un ruolo importante perché aveva lasciato un suo tangibile sigillo nell’occhio della cupola.
Spostai allora la mia attenzione sulla leggenda della statua di Marte, e qui parve accendersi una piccola luce: collegandola infatti con alcuni aspetti del mito di Terminus su cui ora sarebbe lungo soffermarsi, mi venne il sospetto che il legame con Marte non fosse da spiegare con i culti pagani, ma con qualche fatto ‘marziale’. E a Firenze nel 406 ne era accaduto uno davvero epocale, quando l’esercito romano comandato da Stilicone aveva fermato l’invasione dei barbari del re goto Radagaiso diretti a saccheggiare Roma.
Possibile che i fiorentini avessero eretto un monumento per ricordare quella vittoria?
4 – I pericolosi templi di Marte
Per rispondere a questa domanda dovevo informarmi sui monumenti romani eretti sui luoghi di battaglie vittoriose. Com’erano fatti? C’erano regole o modelli da seguire? Dov’erano quelli rimasti?
Sui testi di archeologia classica trovai tutte le risposte. Questi monumenti rispondevano a tradizioni che costituivano le basi ideologiche dell’arte trionfale, l’arte ufficiale dell’imperialismo di Roma. Si usavano perciò simboli e riti che potevano portare a realizzazioni di diversa forma e consistenza, dalle composizioni scultoree a edifici grandiosi, ma che nella sostanza comunicavano tutte messaggi identici: favore divino per le armi romane, ineluttabile destino di dominio universale dell’impero, bruttissimi guai per i nemici e per chi opponeva resistenza. I Romani, come si sa, non andavano molto per il sottile.
Il nucleo di questi monumenti era sempre un trofeo, parola che oggi fa pensare a qualche competizione vinta, ma che per i Romani esprimeva concetti ben diversi: il trofeo si credeva catturasse la furia omicida che si scatenava nel cuore delle battaglie, e perciò lo si erigeva nel luogo dove quella furia, per una imperscrutabile volontà divina, si era risolta in favore dei Romani perché la rivolgesse ancora contro altri nemici. Una sinistra cappa di magia aleggiava dunque sui monumenti tropaici, e questo in epoca cristiana ne causò la sistematica distruzione perché considerati fonti di stregoneria.
5 – Il dottor Jekyll e mr Hyde
Alla luce di queste indicazioni corsi a controllare se l’architettura del nostro mite San Giovanni poteva nascondere le caratteristiche di un terribile monumento tropaico, e fu sorprendente constatare che ce le aveva tutte. Il dottor Jekyll e mr Hyde, insomma.
La prima verifica riguardò l’anomalia più macroscopica, e cioè le dimensioni del monumento: assolutamente esagerate per quello che doveva essere il battistero di una città di provincia, ma perfette per un simbolo della potenza dell’impero romano, non c’erano dubbi. Si scioglieva così come neve al sole un’evidente assurdità architettonica, irrisolvibile se considerata nei termini di un normale rapporto battistero-cattedrale (quale vescovo pazzo o megalomane poteva avere concepito un battistero del genere?), e si spiegava anche quell’atmosfera potente, tutt’altro che pia e celestiale, che si avverte nell’interno del San Giovanni.
Anche la pianta centrale, la cupola e le quattro porte orientate (perché in origine erano quattro: qui ci sarebbe da dilungarsi, ma andiamo avanti) risultavano perfette per un’architettura che doveva ‘sparare’ su tutto il giro dell’orizzonte la furia racchiusa nel trofeo. E se al centro del monumento c’era un trofeo si poteva anche capire a che cosa servivano le due massicce fondazioni trovate in quella posizione, un plinto quadrato con intorno un anello ottagonale: una sosteneva la statua di Marte e l’altra un giro di colonne. Al centro dell’edificio in origine c’era insomma un’edicola, non un grande fonte, anche perché il fonte avrebbe presentato una serie di incongruenze costruttive che qualunque muratore avrebbe potuto illustrare in modo convincente a un intero uditorio di professori senza sollevare obiezioni.
Così buttai giù qualche schizzo, feci un rudimentale fotomontaggio e alla fine mi apparve l’immagine che aveva pensato l’architetto del Tempio, un’immagine potente e piena di senso. Il Battistero com’è oggi mi appariva adesso uno spazio vuoto, incompleto, una conchiglia senza la perla; anzi, un ordigno bellico disinnescato.
Il Battistero di San Giovanni – disegno del Codice Rustici (Biblioteca del Seminario Maggiore Fiorentino).
Secondo alcuni studiosi il Battistero in origine sarebbe stato così.
Questioni di dettagli
Archi della scarsella, capitelli con fusi, pavimenti a mosaico, muri in falso dell’attico, connessione delle strutture nei sottotetti: nel Battistero molti dettagli meritano una spiegazione.
1 – Un dettaglio della scarsella
Scarsella: borsa piatta che nel medioevo si portava appesa alla cintura; in architettura: abside di forma quadrata. Così i vocabolari.
Credo che la prima scarsella intesa come abside sia stata quella del Battistero, e che il nome le sia stato dato per una tipica presa di giro fiorentina. Quando il Battistero era un ‘Tempio di Marte’ aveva l’ingresso verso l’attuale Arcivescovado, e all’ingresso c’era una loggia che fu chiusa con tre pareti per trasformarla in abside. Il risultato però non trovò il plauso dei fiorentini (ti pareva?): ai loro occhi quella chiusura faceva l’effetto di quelle borse piatte – le scarselle, appunto – che si portavano appese alla pancia, cioè in questo caso al corpo dell’edificio, con tutto il rispetto. Di qui l’ironico nomignolo che è poi passato alla storia. Tutto ciò avveniva nel 1202.
La scarsella è dunque opera romanica, e come tutte le altre chiese romaniche fiorentine – San Miniato al Monte, la Badia Fiesolana, San Salvatore al Vescovo, la Collegiata di Empoli – i suoi archi sono dei perfetti semicerchi.
Ora, se il Battistero fosse romanico ci si dovrebbe aspettare che anche i suoi archi siano dei semicerchi. E invece no: gli archi a semicerchio ci sono nella scarsella, ma non nel corpo dell’edificio. Tutti gli archi del secondo ordine delle facciate presentano un notevole rialzamento dell’imposto, e questo è un accorgimento usato dagli architetti classici per rendere gli archi più slanciati, leggeri, eleganti.
Anche questo dettaglio ci dice che la scarsella sì, ma il Battistero no, non è medievale.
2 – Un dettaglio dei capitelli
In cima al Battistero, alcuni capitelli corinzi della lanterna hanno le volute d’angolo che non appoggiano sulle foglie d’acanto, ma sono staccate da esse. Fin qui niente di strano, se non fosse però che le volute e le foglie sono unite da due piccoli fusi a tutto tondo che sono solidali con esse, ricavati cioè dallo stesso blocco di marmo.
Questa caratteristica assai singolare, che credo sia anche molto rara, ha richiesto una lavorazione estremamente accurata, dato l’evidente rischio che un colpo di scalpello mal dato potesse rompere quella piccola goccia di marmo.
Lo scopo dei fusi penso fosse quello di creare delle asole in cui far passare le cordicelle che reggevano dei festoni, e ciò potrebbe essere un indizio che fa pensare più a feste civili che a celebrazioni religiose, anche se non le si possono escludere.
A livello del terreno, poi, accanto alla porta nord si vede un altro capitello simile, e mentre quelli della lanterna dimostrano di essere stati spostati da un’altra collocazione, ridotti in pezzi e poi ricomposti, questo invece è certamente è nella sua collocazione originaria ed è integro.
Queste piccole ma significative dimostrazioni di grande maestria da parte di umili scalpellini non sono mai state oggetto di attenzione da parte degli studiosi. Ma se qualcuno le avesse notate, avrebbe potuto sostenere che si tratta di capitelli lavorati in ambiente romanico?
3 – Un dettaglio dei pavimenti a mosaico
Quando si costruì il Tempio di Marte, si fece un robusto plinto di fondazione per sostenere la colonna che stava al centro del Tempio e sulla quale era posta la statua del dio, o comunque del personaggio che si riteneva fosse Marte. Questo plinto è stato rimesso in luce con gli scavi degli inizi del Novecento, e, come si può vedere visitando la parte centrale dei sotterranei.
Nella foto qui a lato se ne vede sulla sinistra un angolo, insieme a una larga parte dei pavimenti a mosaico che lo circondano; ed è chiarissimo che quando si fece il plinto si tolse una parte dei mosaici pavimentali per mettere in luce il terreno su cui appoggiarlo.
Se non si fece uno scavo profondo fu perché si trovò subito il terreno compatto, e questo fa capire che sicuramente si sapeva che quel terreno non era mai stato dissodato per uso di coltivazioni. Terreno urbano insomma; condizione che non si sarebbe verificata se il plinto fosse stato fatto a distanza di secoli dalla città romana, perché si sarebbero certamente accumulati strati di riporto.
Un’altra osservazione va fatta riguardo ai mosaici dei pavimenti. Come si vede, quando vi fu inserita la muratura del plinto, i mosaici erano ancora integri e livellati. Ciò dimostra che i pavimenti erano stati usati fino a pochissimo tempo prima, altrimenti le piogge e la vegetazione li avrebbero disgregati come sempre succede in questi casi, e dopo pochissimo tempo.
Insomma: ecco qui, in un altro piccolo dettaglio, una conferma che la costruzione del Tempio avvenne quando la città romana esisteva ancora e non era stata devastata dai barbari. Gli archeologi di un secolo fa, come si suol dire, presero lucciole per lanterne; e questa loro brutta figura tutto sommato la si può anche capire, tutti presi com’erano dall’entusiasmo di avere scoperto i reperti di Firenze romana.
Ma da allora, di tutti gli studiosi che hanno pubblicato montagne di libri sull’argomento nessuno si è preoccupato di fare un controllo su quello che gli archeologi avevano scritto. Ahimè.
4 – Un dettaglio nei sottotetti
Costruire muri in falso va contro tutte le regole, eppure nel Battistero i muri dell’attico sono in falso verso l’interno. È un dettaglio che dalla piazza si vede benissimo, ma che è stato sempre ignorato da tutti, probabilmente perché nessuno sapeva spiegarlo. Qualche anno fa, però, Giovanni Pelliccioni ne aveva dato la chiave: i costruttori romani per contrastare le spinte verso l’esterno che si generano alla base delle cupole, provarono a circondarle con muri sbilanciati in senso opposto, ponendoli cioè in falso verso l’interno. Ecco dunque il perché: un accorgimento che non ha solide basi scientifiche, ma sembra aver funzionato egregiamente negli ultimi 1500 anni.
Nei sottotetti si vede la calotta che crea le spinte: sembra il dorso di un cetaceo colossale che affiora dall’oscurità ma è bloccato dai robusti contrafforti che lo circondano. È emozionante pensare che anche Brunelleschi è stato quassù a studiare questo perfetto meccanismo strutturale che qui si offre senza i veli dei rivestimenti e dei mosaici, e si fa ammirare nella sua logica costruttiva.
Poi guardando bene si nota che i contrafforti hanno connessioni piuttosto saltuarie con la cupola, con bozze che si appoggiano ad essa senza penetrare dentro il suo spessore. Ciò vuol dire che per l’architetto non doveva essere molto importante fare in modo che la cupola e i costoloni fossero solidali, come le regole del buon costruire avrebbero richiesto.
Strano, ma perfettamente logico. L’architetto doveva avere ben chiaro il comportamento statico delle strutture, e che per contrastare le spinte bastava circondare la cupola con elementi ben saldi, non importava se collegati ad essa o no.
Il suo non era un ragionamento da costruttore romanico.
Dall’alto in basso: arco della scarsella; arco del II ordine della facciata; arco della facciata di San Miniato al Monte.
Sopra: particolare di un capitello della lanterna con i fusi; capitello a lato della porta nord, con una lavorazione simile.
Particolare della zona centrale degli scavi: a sinistra si vede lo spigolo del plinto della ‘statua di Marte’, e tutt’intorno la muratura dell’anello ottagonale; tra i due, i pavimenti a mosaico delle domus romane.
Sopra: l’arretramento dell’attico visto dalla piazza; una immagine del sottotetto dove si vede, a sinistra, l’estradosso della cupola e a destra un contrafforte che non è ammorsato nella calotta.