Nel mio corso di Caratteri Distributivi degli Edifici dedicavo alcune lezioni ai temi dell’abitare, e per introdurre l’argomento pensai di far riflettere gli studenti su un punto: che con i progetti non si fanno soltanto cose più o meno belle, ma si condiziona anche la vita delle persone, e molto profondamente.
Prima di mostrare qualche esempio tratto dalla vita quotidiana – soggiorni, camere, ascensori, scale, servizi igienici e così via – pensai di introdurre l’argomento ‘abitare’ portando due esempi forti, estremi, uno nel bene e uno nel male.

Per il male mi parve ovvio scegliere Auschwitz: in fondo era un luogo fatto per ‘abitare’. Naturalmente avrei affrontato un tema così importante e complesso da un’angolazione molto particolare e limitata, quella appunto del progetto.
Sull’argomento trovai un libro molto ben documentato (R.J. Van Pelt e D. Dwork, Auschwitz – 1270 to the present), e seppi così che Himmler aveva individuato Auschwitz non solo per gli scopi che sappiamo, ma anche per farne, grazie al lavoro degli internati-schiavi, un centro produttivo con cui finanziare le attività delle SS. Per questo aveva fatto elaborare da uno staff di tecnici dei piani urbanistici (Auschwitz era al centro di un insieme di campi satelliti) e dei progetti edilizi dettagliatissimi, molti disegni dei quali erano miracolosamente scampati alla distruzione. Da essi si vedeva come il progetto di questo campo fosse stato meticolosamente articolato secondo gli insegnamenti del Razionalismo di allora, definendo con precisione i collegamenti, le aree verdi, la disposizione degli edifici, la divisione funzionale delle varie zone, i particolari costruttivi delle baracche e degli arredi… insomma tutto, anche le modifiche resesi via via necessarie agli impianti dei crematori per far fronte alla gestione dell’enorme numero di morti.
Da questi documenti di progetto risultavano evidenti gli accorgimenti usati per annientare non solo fisicamente ma anche psicologicamente gli internati: per esempio, a Birkenau era stata prevista una sola latrina per 32.000 donne, e consisteva in una piccola baracca che si poteva utilizzare solo in certe ore, e ad essa si arrivava dopo lunghe code fatte con i piedi sprofondati negli escrementi. Dentro quella baracca c’era una fossa con delle tavole gettate attraverso: su di esse le internate si appollaiavano strette l’una all’altra e spesso in preda alla dissenteria, sporcandosi a vicenda anche i cenci che indossavano, in un puzzo nauseabondo.

Ora, gli architetti e gli ingegneri che avevano progettato un ‘servizio igienico’ così concepito non potevano chiamarsi fuori dicendo che erano inconsapevoli, che tutto era frutto del caso; e non parliamo delle camere a gas, che ebbero puntuali e documentate modifiche edilizie e tecnologiche per sveltire il ‘lavoro’. Era insomma evidente l’intenzione criminale anche di quei tecnici che avevano scrupolosamente utilizzato le proprie conoscenze per progettare il male; e questo sottolineai a lezione, trovando grande interesse negli studenti.
Poi, a distanza di anni, venni a sapere che il prof. Van Pelt era stato chiamato come esperto in un processo contro David Irving, il principale negazionista dell’Olocausto, e si era trovato coinvolto in una polemica rovente. i negazionisti infatti cercavano ogni argomento per contestare l’idea di uno sterminio di massa pianificato, e il dibattito si stava impantanando in una discussione sui metodi con cui si scrive la storia e sull’attendibilità delle testimonianze e dei documenti. La storia è sempre scritta dai vincitori, no? – essi sostenevano – e anche in questo caso si era andati molto al di là della realtà dei fatti: niente provava che nei campi fossero morte milioni di persone, né che quei forni potessero ridurre in cenere un così alto numero di cadaveri. La discussione toccò risvolti molto tecnici, e si arrivò perfino a prelevare campioni dalle murature delle camere a gas, per controllare se davvero erano impregnate del gas cianuro – il famoso Zyklon B – che per limitare i costi veniva impiegato con molta parsimonia nei dosaggi nonostante che tale diluizione comportasse un allungamento dell’agonia.

Ma ecco che un argomento molto concreto e decisivo contro i negazionisti venne proprio dai progetti di Auschwitz, prodotti in giudizio dal prof. Van Pelt, perché quei disegni dimostravano al di là di ogni dubbio, sia per la creazione di edifici chiaramente funzionali, sia per la meticolosa organizzazione data all’insieme – percorsi, funzioni, flussi, dimensionamenti, tutti studiati con i criteri dei manuali – lo scopo di quei progetti. Come i disegni di un motore ne fanno capire a un ingegnere meccanico il funzionamento e le prestazioni, così il progetto di Auschwitz, analizzato da un qualunque tecnico, forniva una prova chiarissima contro chi sosteneva che i campi di sterminio erano solo un’invenzione.

Se era stata ovvia la scelta del massimo esempio in negativo, per quello in positivo mi trovai un po’ in difficoltà. Pensai alla Escola di Jacaré, a vari luoghi di spiritualità, all’ospedale del dottor Schweitzer: tutti esempi meritevoli di attenzione, ma non proprio rispondenti a ciò che mi proponevo. Mentre cercavo, mi imbattei in un argomento che aveva un grande fascino, e mi soffermai su quello, anche se forse un po’ fuori tema: la casa dell’Ultima Cena. Com’era fatta?

Le infinite pitture che rappresentano quell’evento sono ovviamente frutto dell’immaginazione, ma a me interessava conoscere qualcosa della realtà costruttiva dell’edificio. Quello che si poteva dire era molto poco, e lo si ricavava incrociando gli studi degli archeologi con qualche accenno che troviamo nei Vangeli. In una pubblicazione (Y. Hirschfeld, The Palestinian Dwelling in the Roman Byzantine Period) trovai illustrate varie tipologie di case del tempo, e anche quelle che avevano il famoso ἀνάγαιον (anàgaion) di cui si parla nei Vangeli, cioè una stanza al primo piano, che aveva un uso simile ai soggiorni di oggi e si raggiungeva dal cortile salendo una scala esterna.

Questa casa, che si trovava nella parte sud-ovest del centro antico di Gerusalemme, fu la prima chiesa; in essa si ritirarono gli apostoli dopo il Golgota e lì avvenne la Pentecoste. La proprietà era verosimilmente della famiglia dell’evangelista Marco.
Quella che ospitò avvenimenti così importanti era dunque una casa molto semplice, simile a tante altre.
Perché il bene è fatto di piccole cose.

(Sopra) Gli architetti e gli ingegneri di Auschwitz in una foto di gruppo del 1943 (Auschwitz-Birkenau State Museum).

Una tavola del primo Piano Regolatore di Auschwitz, del giugno 1941: al centro il campo principale con la piazza degli appelli, la baracche degli internati, la prigione, l’infermieria e il crematorio; sulla destra gli alloggi delle SS e in alto la stazione; a sinistra il comando del campo, magazzini e laboratori (Auschwitz-Birkenau State Museum).

Uno dei progetti esecutivi per le baracche degli internati di Auschwitz. Si vede l’accurata definizione esecutiva delle opere da realizzare, che erano poi descritte in capitolati e computi che completavano i progetti; la capienza prevista inizialmente di 550 prigionieri per questa baracca-tipo fu subito portata a 744 (da Van Pelt – Dwork).

Esempi di case palestinesi simili a quelle del tempo di Cristo.