6 – Non erano Sturmtruppen

Tutto ciò aveva un senso. Ero dunque sulla buona strada? Sì, anzi no: dovevo ancora risolvere la questione dei resti delle case romane. Tornai così a disturbare i miei amici custodi, a rileggere le relazioni degli scavi, a guardare con la lente di ingrandimento le fotografie dei reperti, e alla fine mi si aprirono gli occhi. Corsi nel sottosuolo del Battistero a controllare, ed era proprio così. Ma quale furia devastatrice delle Sturmtruppen barbariche! Quelle case non erano state distrutte, ma meticolosamente demolite: stesso risultato, ma una differenza fondamentale.
Possibile? Ciò infatti voleva dire che il Tempio era stato costruito su un’area edificata, quando le case erano ancora in piedi e abitate, e che erano state demolite per fargli posto. Un altro problema da risolvere, altrimenti tutte le mie ipotesi crollavano come il classico castello di carte.
Ripresi perciò con ansia a scartabellare i testi di archeologia, e ancora una volta vi trovai la soluzione. Il trofeo si doveva collocare a fronteggiare il pericolo; a Firenze, dunque, lo si doveva porre presso le mura nord, nella direzione dei passi montani verso il Mugello da cui era sceso Radagaiso e da cui potevano presentarsi ancora i nemici. Non solo: bisognava farlo dentro le mura per non creare un utile caposaldo per un assediante e il più vicino possibile alla porta nord perché appena fuori di essa passava il Mugnone, il corso d’acqua utilizzato per fare arrivare i carichi e i marmi che avevano risalito l’Arno.

Tutto a posto dunque. Ma davvero le autorità cittadine potevano imporre una scelta del genere? Qui la ricerca si allargava a temi che riguardavano la proprietà dei suoli delle colonie romane e di quell’area in particolare, e anche la struttura urbana della Firenze di allora, ma trovai elementi di coerenza anche per questi argomenti. Tutto rientrava nella prospettiva di un intervento eccezionale, di quelli che oggi si chiamano ‘di somma urgenza’ e che si attuano con procedure straordinarie; e lo dimostrava anche il fatto che quel tratto di mura mostrava opere fatte in fretta.

7 – Terribile ma umano

A questo punto mi sembrava di avere raggiunto il desiderato chiarimento su tutta la faccenda. Il Battistero poteva essere pienamente riconosciuto come un monumento classico, e la teoria della sua origine nel medioevo poteva finire nella pattumiera con il principale argomento a suo sostegno ridotto in briciole. Intere biblioteche da buttare.
Ovviamente ciò non accadde: quelli del passato no, ma gli studiosi di oggi sono tutti a favore della datazione medievale, e le mie idee non hanno certo turbato i loro sonni. A me comunque importava vedere dove mi portava la ricerca, e quello che stava emergendo era un racconto convincente, lineare e anche – aspetto molto importante – in pieno accordo con le antiche cronache: tolti infatti gli infiorettamenti e le fantasie inevitabili nei racconti tramandati oralmente di generazione in generazione, risultava che i fiorentini nella sostanza non avevano raccontato balle.

Tutto a posto allora? Nient’affatto. Fermo, immobile, silenzioso attendeva ancora una risposta il personaggio da cui tutto aveva avuto inizio: Terminus. In questo scenario, lui che c’entrava?
C’entrava eccome, perché Terminus, massimo simbolo di stabilità e fermezza per qualunque romano, fu al centro dell’accorato, commovente messaggio di augurio e di speranza che fu affidato al monumento per consegnarlo all’eternità. Il Tempio cioè non era soltanto un memoriale di guerra e un simbolo di minaccia e potenza, ma anche il depositario di un corale e profondamente sentito augurio per le sorti del popolo, della città e dell’impero. E questo aspetto ‘umano’ del terribile monumento tropaico spiega il profondo legame con i fiorentini, che andava al di là dell’arte e della bellezza, perché i cittadini ricordavano che in esso era accesa una fiammella di speranza  che non si sarebbe spenta, nonostante tutto. Ma per spiegare tutto ciò devo prima aprire una breve parentesi su ciò che accadde a Firenze nei giorni di Radagaiso. Avverto che userò un pizzico di fantasia, ma la sostanza del racconto è data da riferimenti storici certi.

8 – Cronache marziane

Quando il re goto a capo di un’orda enorme scese dal Mugello preceduto da una meritatissima fama di crudeltà, Firenze deve essere piombata nell’isteria: ancora qualche giorno e la città sarebbe stata travolta, le case devastate, gli abitanti uccisi o ridotti schiavi. Un incubo. Invece all’ultimo momento arrivò Stilicone a capo di truppe venute fin dalla Gallia e tutto si risolse in un finale che precedeva di quattordici secoli quello di ‘Ombre rosse’. Parve un miracolo, anzi si credette davvero che lo fosse: al cielo salirono ringraziamenti e preghiere di ogni tipo, mentre qui in terra ci si sfogava sui prigionieri.
Anche Stilicone aveva pensieri molto terreni. A corte i senatori suoi nemici gli tramavano contro influenzando l’imperatore Onorio, per cui pensò di lusingare quel giovane rammollito attribuendogli il merito della vittoria con una grande celebrazione; in questo modo avrebbe anche motivato l’esercito, composto da truppe eterogenee e raffazzonate (perfino molti guerrieri di Radagaiso colsero l’occasione per arruolarsi), truppe che avevano bisogno di credere nei grandi destini di Roma non tanto per alti ideali quanto per sperare di fare bottino. Così fece subito riempire le tasche dei suoi soldati con la vendita come schiavi di migliaia di prigionieri, e in un tripudio di festeggiamenti fece sfilare le truppe in città, dove aveva fatto costruire in fretta un arco di trionfo. Ai fiorentini propose poi di erigere un monumento grandioso, da realizzare in tempi rapidissimi, quasi presentisse la brutta fine che avrebbe fatto due anni dopo, e l’idea trovò immediato consenso (e chi poteva obiettare?), anche perché la città era una colonia di ex militari e certe tradizioni dovevano essere molto vive.

Le cronache dicono che ci si rivolse ai migliori costruttori dell’impero tramite i senatori di Roma, e ciò è rispondente alle prassi di allora, oltre che perfettamente logico: bisognava affidarsi a chi queste cose le sapeva fare, e a Roma c’erano le persone che tenevano i contatti tra il mondo politico e quello dei grandi appalti. Ad esse i fiorentini furono indirizzati dallo stesso Stilicone (o forse da sua moglie Serena, che era ben introdotta: chissà), chiedendo ciò che di più bello si poteva fare e garantendo la copertura delle spese. Perché qui c’era il punto debole di tutto il programma: i soldi. Stilicone non li aveva e Onorio nemmeno. I fiorentini invece non dovevano passarsela male, e così, con occhi velati dall’entusiasmo, sottoscrissero un sostanzioso contratto, una vera manna per i costruttori in un tempo di totale crisi degli appalti pubblici, ma una trappola per gli inesperti coloni. C’erano infatti tutte le premesse per un intrallazzo edilizio in grande stile, in cui tutti avevano la loro parte, compreso l’imperatore, incurante del conflitto di interessi per le forniture di marmi dalle cave di sua proprietà. E i fiorentini, che si erano impegnati a pagare, pagarono.
Alla fine l’opera fu davvero la più bella che si potesse desiderare, ma costosissima: analizzando con l’occhio di un geometra di cantiere la successione delle opere eseguite, si capisce molto bene che le ultime furono tirate via, e ciò vuol dire che i pagamenti andavano male: si erano sforati tutti i preventivi e ora le casse della colonia erano praticamente vuote. Ma con un po’ di buona volontà si riuscì a portare a termine il Tempio: c’era voluta una ventina d’anni, e facciamo pure i confronti con l’oggi.

9 – Le chiacchiere degli umarell

Dato che l’occhio del geometra mi sembrava che funzionasse egregiamente, pensai di utilizzarlo per allargare l’indagine ai temi molto prosaici del cantiere e dell’appalto, tentativo che si poteva fare perché il monumento è sostanzialmente integro, frutto un intervento unitario e con poche e secondarie modifiche. Pensai così di incrociare i dati che si ricavavano dall’analisi della costruzione, dai rinvenimenti degli scavi e da qualche accenno contenuto nelle cronache (accenno che sicuramente era l’eco delle chiacchiere degli umarell che anche allora passavano il tempo a sbirciare da dietro le recinzioni quello che facevano i muratori) con le procedure di un appalto e con le operazioni di un cantiere, che nelle grandi linee sono le stesse allora come oggi, come gli orologi antichi misuravano il tempo con criteri uguali a quelli moderni.
Così, come un falegname che per infiggere un chiodo pensa al tipo di martello da usare e al tipo di legno in cui va piantato, cercai di porre ogni dato nel contesto operativo cui poteva essere riferito, e fu confortante constatare che il risultato formava un quadro coerente.

Finalmente dunque i muri parlavano, e per ascoltarli era bastato sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda indicata dal geometra: la successione delle operazioni che si fanno per costruire.
All’inizio c’era stato l’appalto: e dalle vicende storiche, come si è visto, si poteva desumere come nelle grandi linee fossero andate le cose.
Poi emergeva il ruolo dell’impresa: una grandissima impresa certamente, che, data la ristrettezza dei tempi e la complessità dell’organizzazione, si era dimostrata preparatissima, non solo per avere fatto cose belle, ma per essere stata capace di gestire un appalto a distanza, in più luoghi e coordinando tempi, trasporti, forniture, lavorazioni, progetti, mano d’opera, pagamenti.
Cuore di tutta l’operazione fu il progetto, che operativamente doveva essere redatto in sintonia non solo con i committenti, dato il loro potere e le loro particolari esigenze, ma con l’impresa, che in base al progetto doveva organizzare forniture, lavorazioni, trasporti: il progetto non fu quindi solo un capolavoro di estetica ma anche di professionalità.

Insomma: il Battistero-Tempio non andava visto solo come un capolavoro di architettura, ma anche di capacità imprenditoriali e organizzative di una grande impresa del mondo antico.
Perciò ero sempre molto prudente quando qualcuno mi avvertiva dei risultati di una nuova analisi di qualche campione di materiali fatta con gli strumenti più sofisticati, dimostrando l’entusiasmo di chi pensa che da un singolo dato possa venire la soluzione di un problema così articolato. Sul piano del metodo un simile atteggiamento è assolutamente da evitare, e se accade di riscontrarlo bisogna pensare che sia dovuto a ingenuità, ignoranza o mala fede.

10 – Con gli occhi del geometra

Messe dunque da parte le valutazioni estetiche e artistiche, mi calai ancora nel ruolo di geometra di cantiere e cercai di riflettere sul compito che aveva dovuto affrontare l’architetto come tecnico responsabile di un’opera così impegnativa. Era logico pensare che nelle sue scelte avesse tenuto conto degli obblighi fissati nel contratto di appalto, e in questo senso mi parve molto significativo che avesse impiegato marmi greci: una scelta che appariva non dovuta a valutazioni estetiche, dato che marmi simili si potevano trovare anche in Toscana, ma a fattori di convenienza operativa, come ad esempio per i costi e l’affidabilità di fornitori di fiducia.
Questo confermava un appalto gestito molto lontano da Firenze, da costruttori capaci di far fronte a grandi commesse di marmi lavorati, trasferire materiali e manodopera, organizzare, controllare, contabilizzare. Tutto tornava con quanto raccontato dalle cronache: «mandaro al senato di Roma che mandasse loro gli migliori e più sottili maestri che fossono in Roma».

Anche i testi di archeologia mi confermavano che le mie ipotesi stavano in piedi, ma verificandole nel concreto di ciò che mostrava il monumento, nuovi interrogativi sorgevano di continuo. I rivestimenti erano stati interamente lavorati in cava oppure c’erano anche parti fatte a Firenze? E la manodopera era anch’essa venuta da lontano o in parte era locale?

Alcune indicazioni sembravano prospettare una collaborazione tra operai esperti venuti da fuori, e operai del posto, di basso livello e quindi guidati dai più esperti. E un così bravo architetto non poteva non aver tenuto conto di queste condizioni nell’elaborare il suo progetto: forse il largo uso di disegni geometrici dei rivestimenti poteva essere stato considerato il più idoneo per motivi pratici, date le difficoltà del montaggio a distanza.
Peraltro, alcuni particolari dei rivestimenti dimostravano un’accuratezza, una finezza che si potevano spiegare solo con l’opera di mani abilissime sotto il controllo diretto di occhi esperti. L’impresa doveva aver affidato a operai di sua fiducia quei lavori così delicati, come d’altra parte era logico attendersi in un contesto del genere; e molti operai dovevano essere rimasti a lungo a Firenze, anzi per sempre se si pensa a quel borgo fuori porta, di remote origini, che sarebbe stato chiamato ‘dei Greci’.

Si può credere che fosse un decoratore romanico colui che ha fatto questo piccolo capolavoro di geometria?