“Disegnate il percorso che avete fatto per arrivare fin qui.”
Questo ci dissero gli assistenti del corso; e noi, ingenue matricole del primo anno, totalmente spiazzati, ci accorgemmo allora di avere attraversato come sonnambuli vari ambienti per entrare in facoltà e raggiungere quell’aula affollatissima dove adesso si trovava il nostro gregge con i suoi pastori. E così via tutti a ripensare a quegli ambienti, a quanti erano, quanto grandi, di che forma e dove si trovavano; ma, a giudicare da quello che si vedeva sui fogli, con ben scarsi risultati.

Questo test serviva ad abituarci subito a guardare gli spazi dove ci si muoveva e si viveva con occhi nuovi, occhi che misuravano profondità, altezze e distanze, e che trasmettevano al cervello messaggi di tempi e di posizioni. Occhi da futuro architetto.

Memore di quell’esperienza, pensai di fare qualcosa del genere nel mio corso. All’esame facevo tre domande, di cui una su uno dei teatri di cui avevo già prima dato l’elenco, e per questa chiedevo una risposta grafica: disegnare a memoria la pianta del Colosseo, o della Scala, o del Farnese e così via; e se, com’era normale, non si ricordavano tutti gli ambienti, mi bastava vedere tracciare i perimetri delle varie zone e collocarle nella giusta posizione.

Sapevo di non potermi aspettare grandi risultati, ma mi interessava non solo vedere come gli studenti sapevano esprimere graficamente ciò che avevano memorizzato, ma anche far sì che questa fosse l’occasione per far loro prendere coscienza della capacità raggiunta su questo punto fondamentale della formazione di un architetto.

Nonostante il molto impegno profuso, vidi purtroppo emergere un problema grandissimo e generale: nessuno, dico nessuno, cominciava a disegnare tracciando la costruzione della figura, fissando cioè preliminarmente uno scheletro di riferimenti con assi di simmetria e proporzioni sul quale poi disegnare le forme delle piante: per intenderci, disegnare due assi a croce e poi su quelli impostare l’ovale del Colosseo. Tutti disegnavano come avrebbe fatto un pittore dilettante, seduto in campagna con il suo cavalletto a dipingere vacche al pascolo. Nessuno – ed eravamo al terzo anno – era stato educato a vedere lo spazio dell’architettura come una struttura di geometrie.

Nel giudizio fui sempre di manica larga, molto larga. Nel caso non avrei dovuto bocciare loro ma la facoltà: quella di oggi, beninteso, perché quella dei miei tempi certe basi le dava subito, e come!