Archi della scarsella, capitelli con fusi, pavimenti a mosaico, muri in falso dell’attico, connessione delle strutture nei sottotetti: nel Battistero molti dettagli meritano una spiegazione.
1 – Un dettaglio della scarsella
Scarsella: borsa piatta che nel medioevo si portava appesa alla cintura; in architettura: abside di forma quadrata. Così i vocabolari.
Credo che la prima scarsella intesa come abside sia stata quella del Battistero, e che il nome le sia stato dato per una tipica presa di giro fiorentina. Quando il Battistero era un ‘Tempio di Marte’ aveva l’ingresso verso l’attuale Arcivescovado, e all’ingresso c’era una loggia che fu chiusa con tre pareti per trasformarla in abside. Il risultato però non trovò il plauso dei fiorentini (ti pareva?): ai loro occhi quella chiusura faceva l’effetto di quelle borse piatte – le scarselle, appunto – che si portavano appese alla pancia, cioè in questo caso al corpo dell’edificio, con tutto il rispetto. Di qui l’ironico nomignolo che è poi passato alla storia. Tutto ciò avveniva nel 1202.
La scarsella è dunque opera romanica, e come tutte le altre chiese romaniche fiorentine – San Miniato al Monte, la Badia Fiesolana, San Salvatore al Vescovo, la Collegiata di Empoli – i suoi archi sono dei perfetti semicerchi.
Ora, se il Battistero fosse romanico ci si dovrebbe aspettare che anche i suoi archi siano dei semicerchi. E invece no: gli archi a semicerchio ci sono nella scarsella, ma non nel corpo dell’edificio. Tutti gli archi del secondo ordine delle facciate presentano un notevole rialzamento dell’imposto, e questo è un accorgimento usato dagli architetti classici per rendere gli archi più slanciati, leggeri, eleganti.
Anche questo dettaglio ci dice che la scarsella sì, ma il Battistero no, non è medievale.
2 – Un dettaglio dei capitelli
In cima al Battistero, alcuni capitelli corinzi della lanterna hanno le volute d’angolo che non appoggiano sulle foglie d’acanto, ma sono staccate da esse. Fin qui niente di strano, se non fosse però che le volute e le foglie sono unite da due piccoli fusi a tutto tondo che sono solidali con esse, ricavati cioè dallo stesso blocco di marmo.
Questa caratteristica assai singolare, che credo sia anche molto rara, ha richiesto una lavorazione estremamente accurata, dato l’evidente rischio che un colpo di scalpello mal dato potesse rompere quella piccola goccia di marmo.
Lo scopo dei fusi penso fosse quello di creare delle asole in cui far passare le cordicelle che reggevano dei festoni, e ciò potrebbe essere un indizio che fa pensare più a feste civili che a celebrazioni religiose, anche se non le si possono escludere.
A livello del terreno, poi, accanto alla porta nord si vede un altro capitello simile, e mentre quelli della lanterna dimostrano di essere stati spostati da un’altra collocazione, ridotti in pezzi e poi ricomposti, questo invece è certamente è nella sua collocazione originaria ed è integro.
Queste piccole ma significative dimostrazioni di grande maestria da parte di umili scalpellini non sono mai state oggetto di attenzione da parte degli studiosi. Ma se qualcuno le avesse notate, avrebbe potuto sostenere che si tratta di capitelli lavorati in ambiente romanico?
3 – Un dettaglio dei pavimenti a mosaico
Quando si costruì il Tempio di Marte, si fece un robusto plinto di fondazione per sostenere la colonna che stava al centro del Tempio e sulla quale era posta la statua del dio, o comunque del personaggio che si riteneva fosse Marte. Questo plinto è stato rimesso in luce con gli scavi degli inizi del Novecento, e, come si può vedere visitando la parte centrale dei sotterranei.
Nella foto qui a lato se ne vede sulla sinistra un angolo, insieme a una larga parte dei pavimenti a mosaico che lo circondano; ed è chiarissimo che quando si fece il plinto si tolse una parte dei mosaici pavimentali per mettere in luce il terreno su cui appoggiarlo.
Se non si fece uno scavo profondo fu perché si trovò subito il terreno compatto, e questo fa capire che sicuramente si sapeva che quel terreno non era mai stato dissodato per uso di coltivazioni. Terreno urbano insomma; condizione che non si sarebbe verificata se il plinto fosse stato fatto a distanza di secoli dalla città romana, perché si sarebbero certamente accumulati strati di riporto.
Un’altra osservazione va fatta riguardo ai mosaici dei pavimenti. Come si vede, quando vi fu inserita la muratura del plinto, i mosaici erano ancora integri e livellati. Ciò dimostra che i pavimenti erano stati usati fino a pochissimo tempo prima, altrimenti le piogge e la vegetazione li avrebbero disgregati come sempre succede in questi casi, e dopo pochissimo tempo.
Insomma: ecco qui, in un altro piccolo dettaglio, una conferma che la costruzione del Tempio avvenne quando la città romana esisteva ancora e non era stata devastata dai barbari. Gli archeologi di un secolo fa, come si suol dire, presero lucciole per lanterne; e questa loro brutta figura tutto sommato la si può anche capire, tutti presi com’erano dall’entusiasmo di avere scoperto i reperti di Firenze romana.
Ma da allora, di tutti gli studiosi che hanno pubblicato montagne di libri sull’argomento nessuno si è preoccupato di fare un controllo su quello che gli archeologi avevano scritto. Ahimè.
4 – Un dettaglio nei sottotetti
Costruire muri in falso va contro tutte le regole, eppure nel Battistero i muri dell’attico sono in falso verso l’interno. È un dettaglio che dalla piazza si vede benissimo, ma che è stato sempre ignorato da tutti, probabilmente perché nessuno sapeva spiegarlo. Qualche anno fa, però, Giovanni Pelliccioni ne aveva dato la chiave: i costruttori romani per contrastare le spinte verso l’esterno che si generano alla base delle cupole, provarono a circondarle con muri sbilanciati in senso opposto, ponendoli cioè in falso verso l’interno. Ecco dunque il perché: un accorgimento che non ha solide basi scientifiche, ma sembra aver funzionato egregiamente negli ultimi 1500 anni.
Nei sottotetti si vede la calotta che crea le spinte: sembra il dorso di un cetaceo colossale che affiora dall’oscurità ma è bloccato dai robusti contrafforti che lo circondano. È emozionante pensare che anche Brunelleschi è stato quassù a studiare questo perfetto meccanismo strutturale che qui si offre senza i veli dei rivestimenti e dei mosaici, e si fa ammirare nella sua logica costruttiva.
Poi guardando bene si nota che i contrafforti hanno connessioni piuttosto saltuarie con la cupola, con bozze che si appoggiano ad essa senza penetrare dentro il suo spessore. Ciò vuol dire che per l’architetto non doveva essere molto importante fare in modo che la cupola e i costoloni fossero solidali, come le regole del buon costruire avrebbero richiesto.
Strano, ma perfettamente logico. L’architetto doveva avere ben chiaro il comportamento statico delle strutture, e che per contrastare le spinte bastava circondare la cupola con elementi ben saldi, non importava se collegati ad essa o no.
Il suo non era un ragionamento da costruttore romanico.
Dall’alto in basso: arco della scarsella; arco del II ordine della facciata; arco della facciata di San Miniato al Monte.
Sopra: particolare di un capitello della lanterna con i fusi; capitello a lato della porta nord, con una lavorazione simile.
Particolare della zona centrale degli scavi: a sinistra si vede lo spigolo del plinto della ‘statua di Marte’, e tutt’intorno la muratura dell’anello ottagonale; tra i due, i pavimenti a mosaico delle domus romane.
Sopra: l’arretramento dell’attico visto dalla piazza; una immagine del sottotetto dove si vede, a sinistra, l’estradosso della cupola e a destra un contrafforte che non è ammorsato nella calotta.