La mattina del 18 marzo 1969 sul marciapiede di piazza Brunelleschi incontrai Carlo Lucci. Allora il prof. Lucci era assistente di Italo Gamberini, e siccome mi aveva seguito in un paio di corsi, si ricordava molto bene di me, uno studente imbranato ma che sapeva disegnare benino nonostante venisse dal liceo classico.
Mi salutò cordialmente e, dandomi come sempre del lei, mi chiese che cosa facevo.
– Mi sono appena laureato e mi sto guardando intorno.
– Perché non viene da noi?
Ecco, la mia non memorabile carriera universitaria ebbe inizio così, incontrando una persona che d’impulso fece una piccola scommessa su di me.

Carlo Lucci non era un professore qualsiasi. Nei tormentati anni post ’68 circolava la voce che Giovanni Koenig in consiglio di facoltà avesse riconosciuto la dote della coerenza a due soli colleghi, e uno era lui, Carlo Lucci, che per questo suo difetto nel 1944 era stato internato nel campo di Wietzendorf in Germania. Al suo ritorno era ripartito da zero; poi, dopo lunghe traversie, aveva pensato di riallacciare i rapporti con la sua amata facoltà contattando un ex compagno di studi che nel frattempo aveva fatto una brillantissima carriera.
– Va bene farmi da assistente – si sentì dire – ma non darmi del tu.
Gelo.
Ecco, Lucci, anche se dava del lei a noi ragazzi, non era un prof di quello stampo. Sarebbe limitativo dire che insegnava progettazione: insegnava etica della progettazione. Del suo insegnamento ricordo infatti soprattutto un paio cose: l’approccio etico al progetto, visto come servizio reso alla collettività, e il metodo critico, di non compiacersi cioè del proprio operato ma di esserne sempre i primi inesorabili critici.
Proprio come fanno oggi gli archistar.

 


 

Nel 2011, in memoria del padre, i figli del prof. Lucci pubblicarono un testo di ricordi, ‘Lontananze’. Allego il mio contributo.

Ricordo di Carlo Lucci

Ritratto di Carlo Lucci in prigionia
(Gino Spalmach, 1944)

Da sinistra: Alessandro Bellini, Maurizio De Marco, io, Carlo Lucci.