Un mio studente finì in carcere per droga. Glie ne avevano trovata una quantità rilevante nascosta sotto il letto, nella camera di un appartamentino che divideva con altri compagni di studi. Lui si difese dicendo che l’aveva nascosta lì qualcuno di loro, e che lui non ne sapeva nulla, ma non fu creduto e scattò la condanna.
In carcere riprese a studiare, e un giorno presentò domanda alla segreteria del nostro dipartimento di poter sostenere l’esame di Caratteri Distributivi degli Edifici. Il direttore chiese le disponibilità di tre docenti, anche di materie affini, e stranamente non ce ne fu molta. Comunque riuscimmo a formare la commissione, e così un giorno, espletate alcune pratiche burocratiche, potemmo entrare nel carcere di Sollicciano.

Lì trovammo il padre del ragazzo: un uomo avvolto in un cappottone grigio, anziano, più che per l’età, per il dolore. Era stato maestro di scuola al suo paese, in Calabria, e ora consumava il suo tempo e le sue risorse per seguire le vicende del figlio e aiutarlo sulla via del recupero.
Ci scambiammo poche parole, e poi passammo nella stanza dove era stato preparato un banchino con qualche sedia. Il ragazzo si presentò compito ed educato, e sostenne l’esame in modo più che soddisfacente; se non ricordo male, tutti e tre noi commissari fummo un pochino larghi nel voto.
Per lo studente, quello era l’inizio di uno sperato cammino di recupero. Ma soprattutto lo era per suo padre: la gratitudine che quell’uomo mi dimostrò, ancora a distanza di tempo, per avere manifestato nei confronti suoi e del suo ragazzo qualche segno di incoraggiamento e avere speso qualche parola di fiducia e di speranza, fu grande come il cuore di tanta gente del sud.