Progettare il superamento delle barriere architettoniche è oggi un gioco da ragazzi: le normative elencano con precisione criteri, misure, casistiche, ausili e quant’altro; e poi su internet o nelle librerie CAD si trovano pronti per il copia e incolla schemi, ingombri, movimenti, soluzioni tipo.
Qualche goccia di sudore può bagnare le tempie dei tecnici meno dotati quando devono intervenire su edifici tutelati o se si devono confrontare con i diritti di terzi, ma poca roba; e poi si può sempre usufruire di procedure facilitate e agevolazioni di vario genere.

Tutto a posto allora? Non proprio, perché anche dietro, o meglio al di sopra di tutte le prescrizioni e di tutte le formulette ci sta sempre un esprit des lois (mi perdoni Montesquieu) che dovrebbe essere tenuto ben presente da chi progetta.

Il primo articolo dello spirito delle leggi in questione prevede il rispetto della persona svantaggiata e la minimizzazione dei disagi che gli vengono richiesti in conseguenza del progetto; e al primo comma del primo articolo si prescrive che la condizione di disabilità della persona non debba essere messa in evidenza più dello strettissimo necessario, così come gli sforzi che le vengono richiesti per muoversi.
Per conseguire tutto questo il progettista ha grandi possibilità, perché è lui che decide la conformazione dei luoghi e degli spazi, e di conseguenza ha anche grandi responsabilità sul piano umano e su quello dell’etica professionale. Ad esempio, prima di creare un dislivello su un percorso usato da disabili, dovrebbe chiedersi se quel dislivello è davvero necessario.
Esaminati sotto questo aspetto sono molti i progetti che, pur perfettamente rispondenti alle leggi, gridano vendetta.

Capita un giorno all’esame di una commissione edilizia il progetto di un grande edificio pubblico commissionato ad un architetto di fama internazionale, un vero archistar. Il progetto è ovviamente bellissimo e alla commissione viene illustrato dai delegati del grande studio.
Tutto in regola, si può approvare.
Tuttavia, prima di rilasciare il proprio parere, la commissione si permette di fare una rispettosa osservazione, perché rileva che, anche se tutte le prescrizioni in materia di barriere architettoniche sono state puntualmente osservate, secondo quanto risultava dai disegni presentati, un disabile che dalla strada avesse voluto raggiungere nell’interno l’ascensore per salire ai piani avrebbe dovuto fare un percorso di circa 40 metri quasi tutti allo scoperto, cioè al sole, al freddo, alla pioggia, a piedi o in carrozzina, con ovvie difficoltà e fatiche.
Si poteva evitarlo?

Certo che si poteva, tutti lo sapevano, essendo tutti professionisti: la domanda voleva solo esprimere un rispettoso invito, una raccomandazione cortese volta a tutelare gli svantaggiati, fosse pure in qualche rara circostanza.
Ma invece la risposta è sorprendentemente no.
No?
No. Il progetto non lo cambiamo.
Ma ancor più sorprendente è il motivo del no: perché si sarebbe dovuto fare qualche ritocco alle facciate, e ciò avrebbe compromesso la bella estetica dell’edificio ideata dall’archistar. Le norme erano osservate, che cos’altro si voleva?

Così le facciate rimasero belle, a gloria imperitura del grande architetto.