Al termine di una lunghissima e faticosa ricerca, di più di cento chiese costruite in questo periodo nell’area fiorentina viene fornita una scheda con le principali notizie e una descrizione grafica e fotografica, mentre la parte iniziale del saggio è dedicata a un inquadramento complessivo dell’argomento, con riferimento alle problematiche emerse con il Concilio Vaticano II e alcune note sui progettisti.

 


 

Cinquant’anni, cento chiese

L’edilizia di culto nelle diocesi di Firenze, Prato e Fiesole (1946-2000)

con la collaborazione di Lucia Di Nubila e Antonietta Anna Palma

Firenze University Press, 2009

https://fupress.com/catalogo/cinquant-anni-cento-chiese/1836

 

 

I – Vicende e architetture

Il dopoguerra

1 – L’avvio della ricostruzione

Le prime chiese da cui prende le mosse il nostro discorso sono quelle che erano state già iniziate negli anni ’30 e poi erano rimaste interrotte a causa della guerra, e quelle altre che vennero ricostruite perché rimaste distrutte durante il passaggio del fronte o per i bombardamenti. Negli anni della ricostruzione tornano, per un’ovvia forma di inerzia culturale, i temi tradizionali del comporre lo spazio sacro che venivano utilizzati prima dell’evento bellico. Schemi e concetti utilizzati dai progettisti rimandano per un verso, se pur in veste semplificata ed essenziale, alle forme e ai tipi della tradizione, con l’imitazione senza problemi di modi costruttivi e stilemi formali di lontana derivazione romanica, reinterpretata (magari con qualche tocco rinascimentale) secondo i canoni dell’architettura accademica. Per un altro, il riferimento è invece a quella modernista cara al passato regime, in coerenza con una visione «littoria» della città, nella quale la chiesa trova posto come edificio italico, latino, fatto di geometrie regolari, volumi integri, superfici chiare e luminose, decorazioni ridotte all’essenziale, archi a tutto sesto e proporzioni che ricordano le immagini dell’EUR o delle architetture pontine o dei manuali del tempo, anche se, appunto, molto semplificate o ridotte nelle dimensioni. Certi richiami diventano insomma fonte di un linguaggio tradizionale e ibrido insieme, ma più che appropriato per eprimere il sentire di una fede ancora non messa alla prova dal confronto con quella che sarebbe stata la diversa modernità del dopoguerra.

Caso tipico tra le chiese iniziate prima del conflitto è quello dell’Immacolata, che nasce sulla spinta dell’espansione urbana nella piana sotto il colle di Montughi, sul quale sorge la primitiva parrocchiale di S. Martino la cui dedicazione è rimasta nella parrocchia attuale. La chiesa si costruisce in varie fasi in un arco di circa trent’anni, dal 1935 agli anni ’60, su disegno di Primo Saccardi (che riprende però in molte parti del progetto la tresi di laurea per una chiesa a Montughi di Antonio Abram) e per iniziativa del parroco mons. Alessandro Sostegni. Il progetto ben rappresenta i caratteri salienti di larga parte delle chiese in questo periodo, con un impianto d’insieme simmetrico, a croce latina, che rivela l’adeguarsi a modelli desunti dalla tradizione. Il linguaggio formale è quello delle architetture razionaliste del ventennio di cui si è detto: superfici lisce e chiare, archi a tutto sesto, masse prive di tensioni, proporzioni non slanciate. Anche le tecniche costruttive sono quelle tradizionali, in pietra e laterizi; si affaccia però in alcune parti l’uso del cemento armato, con travi di luce ragguardevole. L’impiego del cemento armato in maniera sistematica si avrà solo a partire dagli anni ’50, e da allora sempre più spesso anche con valenza estetica.

Negli anni immediatamente successivi al ’45 le prime edificazioni sono ricostruzioni di edifici andati distrutti. Alcune avvengono in modo fedele, e quindi non rientrano nel nostro studio, ma altre sono invece reinterpretazioni, per quanto soggette a limitazioni e condizionamenti per il fatto stesso della ricostruzione. È questo il caso di S. Cristina a Pagnana, che si avvia nel 1947 su disegno di Lando Bartoli: l’architetto suddivide apparentemente in navate l’interno, ma usa due grandi arcate longitudinali, tendendo in realtà a creare uno spazio nuovo, trasversale e ravvicinato all’altare. Più composte e rispondenti ai canoni della tradizione sono invece la chiesa di S. Martino alla Rufina del francescano p. Raffaello Franci, del ’48, nella quale l’architetto ripropone gli stessi modi compositivi da lui usati nelle realizzazioni dell’anteguerra (una specie di Heri dicebamus), e poi quella del S. Bartolomeo di Primo Saccardi e Ivo Lambertini, nella centralissima piazza del Mercatale a Prato. Iniziata nel ‘49 e completata nel ’57, questa chiesa è caratterizzata da un quadriportico di ingresso, su un angolo del quale si innesta il campanile di facciata con adiacente il battistero; l’impianto è longitudinale a tre navate con cripta. Nel 1950 è la volta di S. Lucia alla Sala presso Brozzi, altra opera di Saccardi caratterizzata da grande semplicità, e nel ‘52 quella del Sant’Andrea a Montespertoli di don Peruzzi e dei Santi Gervasio e Protasio a Firenze di Bartoli. Altre ricostruzioni sono, nel ’53, quella di S. Stefano ad Ugnano di Enrico Taddei, e nel ‘55 quella di S. Maria Assunta a Filettole di Prato di Silvestro Bardazzi. Tutte queste chiese mantengono le originarie caratteristiche di impianto e le tipologie costruttive tradizionali.

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Firenze University Press

 

Dall’alto: Beata Vergine Immacolata in Valdorme; S. Giovanni Gualberto a Pontassieve; S. Jacopo al Girone; S. Maria Theotokos a Loppiano; S. Paolo a Stagnana; Ascensione a Firenze.